FUGGIRE O RESTARE.

 

Un geografo padano racconta che più del 40% degli studenti di urbanistica del Politecnico di Milano indica nel paesaggio alpino il proprio mondo ideale dove vivere (1) . Curiosa visione ripartita, bifronte, del mondo: chi è chiamato a progettare per gli abitanti delle città, in privato sogna i monti, se non per le modalità della vita quotidiana almeno come paesaggio dove stare. Un paesaggio perfino più montanaro della architettura alpina che disegnava Bruno Taut nel 1917 e che in fin dei conti sfocerà poi solo nel disegno di un'altura dalla quale la "corona della città" domina il territorio. Dalla nostra banale quotidiana e utile città della pianura aspettiamo di vedere gli esiti di una urbanistica pianificata da chi ha in mente il paesaggio alpino. Quelle preferenze studentesche ci introducono al tema del disagio, della divisione che si forma nel pensiero di molti, della fuga. Nel garbato racconto di Caramel, Jaco abbandona la quotidianità urbana, va a vivere da solo e con ridotti mezzi in montagna, si organizza una vita lontano da tutto e da tutti anche se con alcuni agganci e alcune provvidenze e qualche tecnologia. Quando Claudio va a trovarlo, discutono di questa scelta, che Claudio trova attraente , discutono i motivi, i vantaggi e gli svantaggi di una tentazione che è difficile dimenticare ma dalla quale si esita a farsi prendere definitivamente. Già, la fuga. Sogno. Pratica. Ammonimento. Sogno e aspirazione di parte dell'umanità da sempre. Individuale o collettivo. Arcadia, Paradiso perduto, Grecia eroica pre-omerica, giardino dell'Eden, Città celeste, paradiso in terra, ritorno alla natura, terra promessa, comunismo primitivo, città giardino, urbanistica antiurbana. Fino all' isolamento paradisiaco nel cyberspazio(2) in collegamento virtuale col mondo. Fino al paradiso promesso dagli architetti del paesaggio con la loro rivista che si chiama Eden. Fino al giardinetto previsto dalle immobiliari delle villettopoli. Fino al "fate pure quel che volete, ma fuori dal mio giardino" dei cultori dell'isolamento nell'ambiente il più naturale possibile. Fino al rifugio nel passato, oggi così scusato, forse comprensibile(3) , ma sempre così tortuosamente doloroso, magari fornito dalla Tv con pane e salame nel borgo toscano finto antico, tutti vestiti come l'Alighieri e così sia. Pratica. Vendo tutto e mi ritiro. Il bottegaio va in pensione in Riviera. Il pensionato fa strenui tour dell'intero mondo. Il borghese intellettualizzato all'improvviso si sente nomade perpetuo. Il viaggiatore si estenua felice tra popoli e paesi esotici, dai tempi del grand tour(4) fino ai nostri anni 60. L'anacoreta. La clausura. A Padova di recente anche un anacoreta urbano, isolato nel bel mezzo della città come fosse nella grotta dell'Anatolia. Meno definitivamente, l'ascensione in montagna, archetipo del viaggio in sè, nostalgia per la verticalità pura, per l'evasione verso il luogo celeste(5) . Oppure, simmetricamente - fuga e rifugio, simmetrici o identici, fuga verso un nuovo rifugio o ritorno al vecchio rifugio? - quando la fuga non è volontaria ma imposta dalle circostanze, la nostalgia, il dolore per il ritorno impossibile o ritardato, il ritorno alla casa del padre, la voglia del ritorno, il nostos . Pungeva gli Argonauti in giro tra il Mar Nero e il golfo della Sirte come oggi tormenta chi ricorda il locus, anche quando l'heimat o la casa lontana sono ormai poco più che l'immagine di uno spento simulacro. Ammonimento. Jean-Jaques Rousseau, intenditore di solitudini, sapeva che solo un selvaggio o un Dio può tirarsi fuori dal consorzio degli uomini. Forse, sfumando con cautela e sfilandosi inconsapevolmente da questa cruda contrapposizione, molti praticano, oggi come sempre nel passato, un ritiro parziale: la propria nicchia, famiglia lavoro casetta, quel tanto o quel poco di cui vivere senza sfarzo, qualche blanda relazione sociale, poco movimento, disinteresse per gli eventi sociali e politici. Oppure, specie nei momenti di marcata difficoltà generale, per le personalità più intellettuali la nicchia di sempre, l'arte, la filosofia. Le centinaia di migliaia di single che vivono nelle grandi città sono poi un esempio di discreta distanza da talune frenesie della vita associata, pur conservando un profilo pacatamente civile e moderno e di vita attiva, cose per le quali la città moderna sembra ancora essere l'ambiente ottimale. La fuga minima poi rimane, il brevissimo e spesso insoddisfacente rito: il week-end! Chi medita scelte più impegnative, spesso sembra che intenda abbandonare, più che la civiltà, l'àmbito complessivo della socialità quotidiana, dato che non rinuncia ai vantaggi creati dalla civiltà con la tecnologia. E quando sogna il "ritorno alla natura", forse non fa attenzione al fatto che oggi l'unica natura che ci è data è ormai quella che comunque è stata modificata dall'uomo(6) . Ma prima della fuga o del rifugio, viene la critica, l'origine delle scelte e dei dubbi. La generazione di Jaco, la stessa di Claudio, la generazione che conobbi quando insegnando ad Architettura a Venezia studiavo insieme con altri amici una tesi di laurea fortemente critica sulle pratiche dell'arredo urbano, è una generazione che ha visto interrompersi alcuni tentativi di modificazione sociale in cui molti speravano. Le ben ragionate critiche rivolte dai due personaggi che dialogano tra loro sono a volte impietose: verso lo stato attuale della civiltà planetaria dei consumi e della globalizzazione; verso la pratica della professione, verso lo stato dell'architettura o verso il modo di trattare la città ancor più che verso la città in sè stessa. Questo fa nascere nel lettore una curiosità. Le tentazioni dell'abbandono e delle fuga, la ricerca di un rifugio tranquillo altrove, se intese genericamente non sono una novità. Si è già detto. E per quanto riguarda gli ultimi anni, si è assistito in Italia, per esempio nelle storie narrate da un cinema troppo casereccio e facilone o nelle notizie su personaggi vari, ad una diffusione del senso della fuga, andare lontano o ritirarsi indietro nel tempo. Chi può, in Patagonia. Chi può un pò meno, nel borgo medievale, o anche nel giardino virtuale e rassicurante del mondo disneyano. Quando usciamo dal generico, la curiosità riguarda la direzione in cui sono rivolte le critiche e la natura delle scelte alternative che il nostro personaggio compie e che tentano, con l'esempio e durante i dialoghi, l'amico tuttavia riluttante e più attaccato al concreto. Il ritiro o la fuga possono avere varie qualità e intensità. Possono riguardare, sulla base di un atteggiamento critico, uno o più cose diverse anche se collegate: la civiltà, la convivenza sociale correntemente intesa, il lavoro o la professione, la città. In alcuni momenti pensi che l'andar via possa essere una forma ben accreditata di quel semplice appartarsi in luoghi tranquilli per lavorare utilizzando i mezzi che la tecnologia offre per le comunicazioni a distanza e per lo sganciamento dalle costrizioni che spesso legavano finora la prestazione lavorativa e il luogo del lavoro e delle relazioni personali legate al lavoro. Il libero professionista da anni pratica, quando se lo può permettere, l'abitudine di comparire nello studio professionale in città due-tre volte alla settimana, ritirandosi per il resto a lavorare nella seconda casa in luoghi ameni e intrattenendo rapporti amicali, di lavoro, e di mondanità, attraverso il computer; il quale tuttavia, come ormai è noto, non fa altro che invogliare a sempre più intensi incontri personali reali anzichè gratificare le persone con forme di interazione virtuale. Lo sviluppo e l'organizzazione di queste abitudini a lavorare in casa collegandosi a distanza col resto del mondo porterebbe in un futuro non lontano, immagina un guru della cibernetica(7) , ad una organizzazione degli insediamenti umani diversa da quella urbana tradizionale, assestando, si dice, il modo di vivere in piccole comunità: si svolge il lavoro a casa, si comunica in rete col computer, e per qualche pausa piacevole si va a piedi in giro per il piccolo borgo, abitato da altri consimili membri della comunità. Che si tratti ancora di vita urbana è assai dubbio. In ogni caso si tratterebbe però di una organizzazione della vita e dei comportamenti che, pur consentendo maggior isolamento rispetto alle attuali pratiche di lavoro, non rinuncia affatto alla vita sociale, per quanto ristretta ad una "comunità" di persone alla pari, la cui rilevanza sociale generale si può mettere in dubbio ma che continuerebbe a funzionare con i modi consueti della mondanità del ceto medio o medio-alto, ovviamente "immerso" nella natura e isolato dal quotidianità affannosa delle città, viste, al solito, come entità insicure, superate, e socialmente inaffidabili. Qui è diverso. Jaco sceglie un isolamento più completo. Tuttavia la valutazione sui modi di questi appartarsi può restare incerta. Non è un isolamento totale dalla civiltà, poichè pur nella semplicità della vita che viene scelta e nella solitudine, nelle pratiche quotidiane semplici e anche faticose relative alle provviste di cibo e di acqua e di riscaldamento, ci si serve tuttavia di denaro per ottenere alcune cose, si è collegati al resto del mondo con mezzi tecnologici, e all'occorrenza, per qualche emergenza sanitaria, si può persino ricorrere all'elicottero. Chiaro segno che in realtà questo tipo di scelta di solitudine è praticabile da chi ha consistenti possibilità e una preesistente rete di conoscenze, scientifiche, umanistiche (la lettura sarà coltivata), sociali (qualche occasione di lavoro, e la corrispondenza in rete con amici vecchi e nuovi). E' piuttosto un isolamento consistente, ma non totale, dai rapporti sociali legati alla prossimità tra esseri umani. Isolamento quindi più dalla società che dalla civiltà. Anche se permangono i rapporti virtuali attraverso il computer o se serve anche il telefono, e qualche stagionale rapporto con cortesi valligiani dei dintorni, che pure stanno a debita distanza, e qualche cosciente difficoltà nell'assenza di scambio di parole, tanto per che esercitare le corde vocali Jaco a volte parlerà da solo. Potrebbe essere dunque un "modello" del tipo di vita che si può condurre da soli in regime di successo della comunicazione virtuale, l'assetto futuro che molti ipotizzano. Viene allora da pensare che si tratti (anche) di un tipo diverso di isolamento, la fuga dalla città, se è vero che nella città di solito si massimizzano le forme di interazione sociale reale. Civiltà, società, città, del resto, lo abbiamo visto, per chi praticava l'architettura e aveva insoddisfazioni generali sul momento presente, erano naturalmente associate nei discorsi e pensieri critici. L'intreccio non è semplice, certe possibili ambiguità della scelta sono visibili. Infatti, se si voleva sfuggire alla città, e mantenere tuttavia rapporti sociali reali e non solo virtuali, non c'era forse a disposizione la fuga che tanti praticano, abbandonare la città, o la grande città, per rifugiarsi nel borgo? Persino gli esaltatori della futura civiltà del cyberspazio e della vita elettronica e digitale hanno, lo si è visto, un'accorta attenzione per una vita sociale addensata in piccoli centri pedonalizzati, dove quindi il "new urbanism" all'americana soppianterebbe tanto la vecchia città che la dispersione insediativa, anche se chi apprezza i vantaggi della città non può considerare questa soluzione come equivalente alla normale convivenza urbana. Eppure, non sembra sempre dai discorsi di Jaco che la città sia così invivibile come tanti pensano. Il ragionamento del lettore di questo racconto-saggio dunque deve farsi più complesso. Forse, sia per valutare le scelte del nostro personaggio, sia per apprezzare le perplessità che accompagnano la tentazione di Claudio di seguire la medesima scelta, occorre veramente considerare insieme i disagi nei confronti della civiltà, della società, della professione, e della città attuali. Comprese le maggiori complicazioni che possono esserci oggi rispetto a quando quei disagi cominciavano a radicarsi ormai vent'anni addietro. Le soddisfazioni dell'architettura? Delusioni cocenti sono maturate in questi anni. La necessità di adattarsi a comportamenti della committenza non sempre degni delle migliori lodi. L'impatto degli interessi politici sull'attività dei professionisti. La normativa di tutela della professione che lascia poco spazio a chi già non abbia un suo spazio ben affermato. Lo stato non esaltante della pratica architettonica - per non parlare dell'urbanistica - nel nostro paese, dove molto ha giocato il controllo da parte di alcuni personaggi e la vischiosità del dibattito tra scuole di architettura non disposte a riconoscere i cambiamenti. L'affermarsi, dieci anni fa, improvvisamente, di un manierismo postmoderno ormai venuto a noia e superato (ma ancora qua e là praticato), che certo avrà sconvolto chi era stato educato ai limpidi ragionamenti della modernità. Infine l'attuale dibattito internazionale, esageratamente puntato sull'architettura digitale e bidimensionale, sull'equivalenza tra design e architettura, e sull'architettura istantanea e carnevalesca, è comunque troppo recente per vedere soddisfacentemente esaurite le domande di carattere metodologico, filosofico, estetico, e professionale che questi nuovi input legati alla civiltà dell'immagine hanno generate. E nel nostro paese manca del tutto la soddisfazione visiva che almeno la supermodernità offre in altri paesi europei, costellati di bellissime architetture recenti. Ne risalta un nostro difetto eminente: siamo un paese che non vuole spendere in belle e costose architetture. L'immagine, come domina nell'architettura con gli attuali spaesamenti, domina la civiltà intera in questo momento. Sicchè alle critiche consuete verso la civiltà dei consumi, oggi facilmente si aggiunge qualche scontentezza per il fatto che la civiltà del mercato globale è al tempo stesso una civiltà dove nessuno riesce a sfuggire alla manipolazione costruita in ogni momento e in ogni occasione e luogo della vita quotidiana, pubblica e privata, da chi governa la produzione di immagini. Su questo punto le strategie di protezione della persona dalle invadenze mediatiche sono un tema di discussione molto attuale. Di fronte ad un futuro che appare sempre più regolato, dove si vanno perdendo le singolarità e le personalità, dove le strutture che si occupano di immagine fanno di tutto per catturare quantificare manipolare e controllare l'attenzione della gente, e dove "i mercati globali esigono una colonizzazione predatoria dello spazio aperto", dove non resterebbe altro che diventare acquiescenti decoratori, colui che ben conosce il mondo della produzione di immagini, mentre provocatoriamente ipotizza in un mondo sempre più uguale qualche nicchia elitaria di sprezzante evasione da brivido - un tour della fame in Etiopia, per esempio - suggerisce poi una sorta di manifesto(8) per una complicata strategia. L'esperto di design, notando i difetti di un mondo che in quanto dominato dal design sembra libero dalle ansie di contenuto, riuscirebbe, continuamente spostando il proprio centro, desincronizzandosi e sottraendosi ad alcune "regole" del successo, ad essere al tempo stesso molto aggiornato e all'avanguardia e molto consapevole della propria persona e della propria capacità di avere idee e di essere contento del lavoro. Se dalle critiche e dal disagio per le condizioni dell'architettura che crea immagini e per la civiltà dominata dall'immagine passiamo al tema della città, le cose non migliorano. Una seconda ragione di scontento si potrebbe aggiungere alle consuete vecchie critiche contro la città. Si accumulano da secoli, e sono ormai tradizione di tutto il novecento. Crescevano a cura degli urbanisti antiurbani e degli utopisti di marca ottocentesca e più tardi degli ambientalisti negli anni in cui essi facevano credere che abitare nel verde fosse la stessa cosa che salvare la natura. Ma si rinforzavano anche ad opera di chi magari affrettatamente vedeva nella città più che il prodotto di lunghe e sapienti sedimentazioni storiche soltanto l'emblema distruttivo e alienante della civiltà capitalista, mentre fuori poteva esserci il paradiso. Non era raro che si volesse fuggire dalla città, manifestazione di un sistema sociale ingiusto, e al tempo stesso luogo disturbante per la confusione, il rumore, l'anonimato, l'emarginazione. Bisogna dire che un nuovo motivo di critica, e piuttosto assorbente in quanto legato a quei caratteri recenti della civiltà contemporanea appena visti, sta proprio nel dominio delle nuove filosofie dell'immagine anche sullo spazio e sull'organizzazione della città. Non si fatica a vedere che oggi la città a molti può apparire addirittura peggiorata negli ultimi decenni. Trascurata spesso e come al solito nell'amministrazione del funzionamento quotidiano, si assommano nella città altri difetti. La pianificazione, sia pure riformista, se mai ha funzionato, oggi non funzionerà dovendo cedere totalmente alle logiche del mercato come la logica delle politiche pubbliche cede sempre più agli interessi privati potenti fino a sparire. La cura per i centri storici li sta riducendo a immaginette del tutto separate dal resto del contesto urbano, consegnandoli alla museificazione, all'intoccabilità, al turismo anche ipotetico, magari con la pallida e insoddisfacente giustificazione della "identità del luogo" in un'epoca in cui sempre meno questi accumuli identitari trovano reale spazio. L'enfasi data alla dispersione degli insediamenti sul territorio - proprio nel nord-est, il mitico "diffuso" - incoraggiando spensieratamente l'uso dell'automobile e il feticismo dell'autostrada fa a pugni con le raccomandazioni di chi volendo salvare il pianeta predica che ci debba essere meno mobilità degli abitanti. I simulacri di socialità che troviamo nei luoghi del commercio contemporaneo vengono reclamizzati come valido sostituto della socialità e della interazione casuale che da sempre solo la città riesce a dare. Si cerca di produrre uno spirito di piccola comunità nei quartieri urbani quando la città è sempre più ospite di individui e gruppi sociali nuovi ed avrà bisogno di nuove regole generali e meno attaccate al senso tradizionale di comunità. Si massacrano di arredi urbani spesso inutili e brutti i luoghi più trafficati e consueti del panorama urbano. Qualche volta, persino chi sopportava i disagi per così dire normali della città poichè apprezzava i vantaggi del vivere urbano, oggi è tentato a sua volta di fuggire da manierismi e stereotipi mortificanti per i cittadini anche quando sembra facciano la gloria di alcuni amministratori e rispecchino le mode intellettuali. E allora, Jaco, fuggire dalla professione, dalla civiltà, dall'invasione del governo delle immagini, dalla società in cambiamento con risvolti e forse esiti sconosciuti, dalla città "invivibile" di ieri, dalla città leziosa e patinata di oggi? O piuttosto resistere, sapere che come in tutte le metamorfosi dell'umanità forse anche in questa metamorfosi pesante che viviamo, e che è piuttosto contraddittorio respingere in tutte le sue cose eccettuato il mio caro computer e il mio caro modem (qualcuno anni fa sosteneva che acquattati in una valle sperduta con il modem si potesse creare chissà quale grande alternatività), vi sono spiragli per modificazioni e adattamenti? Certo, il gioco oggi è così totale che sembra non ci siano spazi per chi ha qualche motivo di dissenso. E chi può se ne tira fuori confortevolmente. Altri se ne tirano fuori con scelte di vita meno decorose - e diventano il popolo invisibile della città -. Altri viaggeranno di lato, accompagnando il movimento delle cose e stando attenti a quando ci sono spiragli per positive modifiche anche piccole e per operazioni professionali dignitose, e a quando la situazione diventi per ognuno in qualche modo più favorevole e sopportabile. Anche se tutti parlano di sostenibilità pensando al pianeta, vi sono concreti problemi e temi e opportunità di sostenibilità sociale, di sopportabilità del vivere, che l'onestà di atteggiamento politico e amministrativo può forse ancora controllare. Spesso si dice invece "non ci sono alternative". E' quella che un autore americano che si occupa di città chiama la "sindrome TINA (There Is Not Alternative)"(9) , alla quale per parte sua oppone, con qualche ottimismo, la possibilità di azione paziente e anche minuta sui molti problemi del vivere urbano così pieno di divisioni e di dimenticanze. Mentre scrivo, sto fuggendo, non di mia volontà, verso la semi-periferia della città. L'espulsione dal centro storico continua, questo quartiere del centro diventa una efficace enclave per abitanti ricchi. Diventa cioè una nicchia per una fuga ben funzionante per chi può permetterselo, e certo non dolorosa nè rinunciataria: isolarsi in gruppi opulenti dentro ad un quartiere in piena città riservato a truppe di agiati grunge un poco stagionati, i "bobo" (borghesi-bohèmien). Nella semiperiferia sarà meno bello di certo. Ma non tanto meno bello da spingermi a scegliere la fuga dalla città. Dopotutto, mentre qualcuno dice che la città è un bene raro e costoso e bisogna pagarselo, altri sanno che anche con difficoltà e disagi la città come aggregato umano denso e grande è il possibile luogo di socialità e di vita moderna proprio per chi non dispone a proprio agio di grandi fortune e di confortevoli paradisi.

Michele Sernini Dicembre 2000

 

(1)E. Turri, La megalopoli padana, Marsilio, Venezia 2000

(2) M. Wertheim, The Pearly Gates of Cyberspace. A History of Space from Dante to the Internet, W. W. Norton & Co., New York 1999

(3) H. Schwartz, The Culture of the Copy, Zone Books, New York 1996; R. Gambino, Introduzione a P. Castelnovi (a cura di), Il senso del paesaggio, IRES, Torino 2000

(4)C. Chard, Pleasure and Guilt on the Grand Tour. Travel writing and imaginative geography 1600-1830, Manchester University Press, Manchester 1999

(5) G. Durand, Les structures anthropologiques de l'imaginaire, Dunod, Paris 11a ediz. 1992, p. 141. Sul tema dell'ascensione anche S. Schama, Landscape and Memory, Knopf, New York 1995, 3a parte.

(6) Per dirla con S. Schama, Landscape and Memory, citato, Introduzione.

(7) W. J. Mitchell, E-topia. "Urban life, Jim - but not as we know it", MIT Press, Cambridge, Mass., 1999

(8) K. Maclear, B. Testa (edited by), Life Style. Bruce Mau, Phaidon, London 2000

(9) P. Marcuse, R. van Kempen (edited by), Globalizing Cities. A New Spatial order?, Blackwell, Oxford 2000