La risalita mi sembrò molto faticosa, anche se il paesaggio
sbiancato dall’inverno , mi affascinava abbagliandomi di luce.
Camminando nella neve dura, rischiavo spesso di scivolare,
soprattutto sui pendii più ripidi. Ma in realtà non c’era nessun
problema, se non un senso di solitudine ed estraneazione totale, appena appena
attenuato dal telefonino acceso che portavo con me in una tasca esterna dello
zaino. Andavo su con calma, senza agitarmi, perché ormai avevo imparato
un po’ a camminare in montagna. Respiravo a pieni polmoni, inspirando dal naso
come mi aveva suggerito un amico; ogni tanto mi fermavo a guardare intorno e
a riposare. Arrivai sul dosso alle 11.30, ben più tardi del previsto.
L’altipiano di Jaco, come una tovaglia ad asciugare, sembrava
appoggiato lì per caso tra i boschi e le rocce.
Tutto era diverso dall’ultima volta, tutto era infinitamente più lontano:
un mondo candido e fermo, pervaso da un silenzio infinito. Ormai ero abituato
a sedermi sul dosso ad ammirare il paesaggio;
col binocolo cercai di inquadrare qualcosa che vedevo correre giù verso
la malga. Una
lepre forse o una volpe? Guardai anche a monte,
verso il Cimon
della Pala e verso il Mulaz.
"Che spettacolo !" pensavo, felice d’esser giunto
fin lì.
Jaco, come sempre, mi venne incontro sorridendo e agitando
la mano per salutarmi con quella sua andatura un po’ scanzonata, coi suoi pantaloni
alla zuava, col suo cordino al posto della cintura, senza guanti né copricapo
ma con un paio di occhiali da sole e Rube al seguito.
Arrivati a casa e lasciato lo zaino sotto il portico mi chiese
di andare a salutare le bestie in stalla. C’erano la mucca, la Nerina per esattezza,
Picchio, quattro caprette e qualche gallina. Sembravano in piena salute. "Guarda,
ho fatto il tirante della capriata col tuo cavetto d’acciaio. Come ti sembra
?"
"Non è sottile ?"
"Spero di no, serve solo come rinforzo per evitare che
il trave crepi di più"
"Bello ! Speriamo che tenga."
Usciti dalla stalla mi indicò le due piccole palizzate,
fatte da pochi giorni col malgaro per proteggere il muro a monte dalla neve.
"Così riesco a spalare senza che ne venga giù
troppa."
Finalmente entrammo in attrezzeria dove mi tolsi le pedule
bagnate. Disfai lo zaino per consegnargli il CRC, il cacciavitino, i colori,
la china, le sanguigne ed il bel pile blù che avevo acquistato.
Sul focolare due ceppi scoppiettanti bruciavano vivacemente
con un bel fuoco; sulla cucina economica la pentola a scaldare, sul tavolo la
ciotola del latte, il tagliere con un salamino invitante e la polenta ancora
fumante. Buttai giù un ottavino d’un sorso solo, anche per sciogliermi
un po’. Poi raddoppiai sotto gli occhi divertiti di Jaco. Mi sentivo già
a casa; lo stanzone accogliente, caldo e così semplicemente naturale,
metteva subito a proprio agio chiunque lo frequentasse. Era un ambiente persuasivo,
tiepidamente ordinato, meravigliosamente privo di suppellettili inutili, arcaico,
asciutto e semplice; lievemente ricoperto da quella patina di vissuto che solo
i materiali naturali come il legno e la pietra, riescono ad apprendere col tempo,
come il colore dei giorni che passano. Pur essendo tutto perfettamente pulito,
con ogni cosa messa al suo posto, quella strana convivenza di quadri, colori
e colle e di macchinari elettronici, al cospetto di ciotole di terracotta e
di legno, vecchi cesti di vimini, pentole di rame, mestoli fatti a mano, taglieri
e cibarie in vista; tutte quelle cose messe insieme, pur potendo sembrare all’apparenza
contrastanti e tra loro inconciliabili, conferivano all’ambiente una certa ricchezza
e varietà di contenuti. Non si trattava cioè di una casa monocorde
e monoculturale del tipo baita di montagna ristrutturata, né benchè
meno del tipo villino in stile e ancora meno casa da architetto, bensì
di un’intelligente e variegata commistione tra il vecchio e il nuovo, una semplice
mescolanza, nell’assenza più totale di perfezione e di dettagli ricercati.
Tutto era fatto a mano, con i materiali del luogo, con attrezzi poveri ed antichi,
cosicchè sembrava di sentire la presenza di chi ci aveva lavorato, la
testimonianza di un modo di lavorare, di antiche usanze artigianali e di vecchi
metodi costruttivi. Niente cemento, niente intonaci, niente pittura, niente
vernici, niente plastica. I colori erano i colori stessi dei materiali: il tavolato
di legno del pavimento, i tavoloni dei piani d’appoggio, i travi più
scuri del solaio e degli architravi sopra le finestre, la pietra dei muri e
del focolare, la stufa e la cucina economica, le due porte di legno già
vecchio perché probabilmente recuperate, i cesti. L’unico materiale per
così dire contemporaneo, oltre alla griglia con la sua piastra in titanio
ed i macchinari elettronici sul tavolo tecnico, era il doppio vetro camera delle
finestrelle. Sul cavalletto c’era poggiato un quadro nuovo; molto chiaro, realizzato
con tecniche simili al precedente, ma fatto di trasparenze profonde su bianchi
più o meno freddi, dal ghiaccio all’avorio con parecchie tonalità.
Il pannello misurava circa un metro per un metro, le carte e le pergamene sovrapposte
come a fare dei rilievi si trovavano disposte lungo una mezza diagonale verso
l’alto. Alla base del quadro, per un’altezza di circa dieci centimetri sotto
un’altra sovrapposizione di carte di riso sbiancate ma ancora trasparenti, s’intravvedeva
una piccola scrittura con caratteri dal sapore quattrocentesco. Nel mezzo del
quadro traspariva un’immagine appena percettibile dai contorni sfumati; un volto
probabilmente scannerizzato dal computer schiarito nei chiaroscuri da velature
di bianco. Quell’altro quadro era fatto di verdi e di blù, questo di
bianco.
"Probabilmente" pensavo, "sente le stagioni".
Mangiando nella ciotola una minestra di riso e ceci, Jaco,
come se non ci fossimo mai lasciati, in modo del tutto normale e con una scioltezza
che mi stupì, riprese a parlare:
"La materia non transgredisce se stessa. Il legno è
legno, la pietra è pietra finchè non diventa un’opera d’arte.
Michelangelo diceva che uno scultore non plasma la pietra ma l’idea. Allora
un bravo falegname che fa un lavoro fatto bene per realizzare, che so, un tavolo
o una sedia, lascia di sé una testimonianza se lo plasma con le mani
in un processo produttivo del pezzo unico e non seriale; ma il legno resta legno.
La materia transgredisce se stessa per divenire opera d’arte solo sotto i colpi
del demiurgo che la plasma per generare una forma dello spirito. E’ un concetto
platonico, ma in fondo, le cose stanno proprio così: pensaci e vedrai.
Il resto è ideologia. Certo oggi col superomismo di massa e col dilagare
di una strana cultura che definirei solipsista, dall’arte all’architettura,
fino al divertimento e lo sport si cerca l’estremo per godere e non l’armonia
delle proporzioni ed un’idea di bellezza, sia pur nuova, ma pur sempre semplice
e duratura."
"Hai ragione, ci pensavo proprio giorni addietro alla
vocazione che dovrebbero avere l’arte e l’architettura di durare nel tempo,
che è l’unico vero ed implacabile arbitro dell’atto creativo. Ne ho parlato
anche alla cerimonia del premio d’architettura, ma senza troppo entusiasmo.
In realtà in questo periodo ho pensato tanto al futuro, così ho
capito davvero la dignità della tua scelta di rinunciare alla pratica
della professione. E’ una scelta che ha le sue ragioni anche al di là
di quelle più personali. Ho capito che io stesso, per istinto, in qualche
modo ho operato una scelta rinunciataria nei riguardi della nuova edificazione.
Ho incentrato la mia attenzione sulle aree di completamento, sulle ristrutturazioni
e sul design, sugli allestimenti e la grafica, evitando in ogni modo di partecipare
allo scempio.
La tua scelta più radicale ed ascetica di mettersi fuori
dal panorama, pur dimostrando una elevata dignità etica e morale , contemporaneamente
però, denuncia la tua personale sconfitta di architetto."
Pensavo anche al divertente uso dell’ossimoro retorico del
superomismo di massa come sintetica definizione della vacuità di questa
civiltà sbagliata e distruttiva, ormai giunta alla fine dei suoi giorni.
"Il novecento è un secolo incomprensibile"
continuai; e Jaco
"E’ fuori dalla storia."
Così riprendeva il nostro dialogo!
Lì a parlare di quelle cose ed in quel modo, pareva
d’esser fuori dal mondo.
In un mondo dove parole come bellezza, arte, armonia potevano
essere pronunciate senza il timore d’apparire antiquati e retrogradi; dove l’intimo
rapporto con la natura ispirava le fonti del ragionamento; come del resto i
quadri stessi di Jaco che, guarda caso, già mi aveva manifestato il suo
desiderio di ritornare al figurativo. Così gli chiesi ulteriori spiegazioni.
"L’arte di questo secolo, governata soprattutto negli
ultimi anni da un esagerato antropocentrismo, si è dimenticata della
natura e di quanta bellezza essa contenga."
"Eh sì, solo che il paesaggio frequentato dai più
è il suburbio pervaso di spazzatura e rifiuti industriali. Allora l’artista
oggi usa copertoni e pezzi di macchine in disuso perché questo è
quello che ha intorno e quelli sono i suoi materiali. A ben guardare l’arte
di oggi ben rappresenta la confusione, il degrado, la volgarità di una
civiltà che fatica ad intravedere un futuro possibile."
"Sì, sì, lo so, ma ricorda che, se hai occhi
per guardare , tra i rifiuti, potrai anche incrociare un volto, due occhi, un
corpo, una luna o dei soli, una foglia, un alberello sopravvissuto al cemento.
Ricordati che la bellezza s’incontra spesso e quando meno te l’aspetti. Eppure
c’è, in ogni dove, anche nelle grigie periferie delle metropoli, se non
altro negli occhi dei bimbi. E’ che la bellezza oggi serve agli stilisti nelle
sfilate o alle multinazionali nelle pubblicità televisive; ma non serve
più alla politica come strumento autorigenerante e rappresentativo di
valori alti. La politica oggi è performativa, cerca consenso immediato,
non può permettersi di pianificare un progetto di civiltà perché
non c’è più civiltà, né di programmare la realizzazione
di una nuova idea sociale, perché nel tempo dell’immediatezza non è
concesso un programma a lungo termine. Infatti, vedi cosa fanno i politici nelle
città ? I marciapiedi, la pavimentazione delle piazze, l’arredo urbano:
realizzano opere immediate per il consenso immediato. Cercano effetti positivi
alla microscala dell’effimero poi dimenticando gli effetti invece devastanti
di quelle orribili pavimentazioni. Buttano via il tempo, le pietre consumate
da milioni e milioni di passi, per farsi pubblicità spicciola mettendo
anche la città fuori dalla storia. Mi domando come sia possibile tutto
ciò."
"Si fanno i marciapiedi perché non si sa cosa c’è
dopo. Qualcosa dovranno pur fare."
"Si, sì; solo che per il consenso è molto più performativo
rifare la pavimentazione delle piazze del centro già perfette così
come sono; costi quel che costi, non in termini economici, ma in termini di
distruzione. Perché concentrarsi a fare un parco giochi per bambini magari
in un piccolo vuoto urbano periferico e inutilizzato come faceva Jacobsen?
Solo per far contenti quei pochi sfigati che abitano lì? E chi se ne
frega! Meglio farsi belli con gli influenti, accontentare i residenti del centro
e i turisti e i commercianti. Quelli sono voti sicuri !
Perché dovrebbero pensare a rigenerare i suburbi, a
trovare case agli immigrati nella speranza di costruire una possibile convivenza
accettabile? Perché dovrebbero promuovere una nuova densità abitativa
ed una nuova commistione di funzioni nelle periferie invece di continuare a
trasformare i campi in terreni edificabili? Te lo dico io perché: nel
primo caso gli abitanti, che non capiscono, s’incazzano; nel secondo i proprietari
e le imprese festeggiano a champagne e portano voti per alimentare i propri
interessi ! Scusami se mi scaldo; non ti spaventare. E’ che ho paura."
"Non ti preoccupare, non mi spavento."
Ma Jaco ormai s’era infervorato: "E’ come con la droga.
Parlano, parlano, tante notizie ai telegiornali, e poi scopri, se cerchi di
guardare dentro le cose, che la droga è funzionale al sistema, come la
farina per il pane. Ma a chi credono di darla a bere, questi politici? Gente
che negli ultimi anni non ha esitato a seppellire nei giardini e a imbottire
le poltrone di denari, lingotti, pietre preziose, sottratti a fiumi dai beni
di tutti, gente che ha vissuto in prima persona la quotidiana illiceità
del furto e della truffa; questa gentaglia ha sempre chiuso un occhio, nei riguardi
della droga. I ragazzi scontenti e spaesati, possono diventare un problema serio.
Meglio che si brucino il cervello con l’ecstasy e i decibel delle discoteche
durante il weekend, così sfogano l’adrenalina e si rimbecilliscono. Sai
quanto ci vuole ad eliminare l’ecstasy dalle discoteche? Basta fare un paio
di decretini in un paio di giorni: chi spaccia si becca un paio d’anni di galera
senza condizionale perché è un omicida anche se con qualche
attenuante - il gestore della discoteca chiude, paga una multa salata e va sotto
processo per favoreggiamento. Ti pare illiberale ed intollerante ? Allora dimmi,
don Chisciotte, cosa farai quando t’accorgerai che la tua Carlotta in guepìere
si scatena sulla pista, inebetita da un mix assassino di prodotti chimici ?
C’è un sacco di gente che si adopera per salvare questi ragazzi e per
aiutarli. Ma ai miopi potenti va bene così, altrimenti quegli stessi
ragazzi troverebbero modi ben più fastidiosi per liberarsi della rabbia
che gli pompa nelle vene. I gestori di discoteche frequentano i salotti degli
amministratori, quelli stessi che magari fan la guerra al prete che organizza
il centro di accoglienza …
Oppure con gli extracomunitari: quegli stessi che fino a ieri,
vinti da un’ignoranza demagogica, li vedevano come cause di tutti i mali, oggi
al bisogno, li mettono nelle fabbrichette, per poi continuare in salotto a dichiararsi
candidamente contrari all’integrazione. Questi disgraziati di extracomunitari
arrivano in un inferno peggiore di quello da cui vengono; trovano solidarietà
solo dai poveri o da quei pochi che si ricordano di un nonno o uno zio immigrati
in Germania. Mi sarebbe piaciuto molto se avessero davvero candidato al Nobel
per la pace la gente del Salento, sai che lezione ai nostri politici demagoghi?"
"Ricordo una conferenza di Paolo Ceccarelli, allora rettore dello IUAV,
che circa venti anni fa disse: "i sindaci farebbero bene a predisporre
le loro città per far fronte all’ondata di immigrazione che si aspetta
veramente incontenibile intorno agli anni 2000."
"Vedi? Questi politici ne avevano di strumenti per pianificare
veramente le città. E invece, anche se ammoniti dal rettore e da molti
altri, han cominciato a pensare alle pavimentazioni delle piazze, alle panchine,
ai salotti buoni, al turismo, ai centri commerciali. Adesso si accorgono in
ritardo dei ghetti e dei rifugi di tutta quella povera gente che senza lavoro
e senza casa, cosa dovrebbe fare se non mettersi ai semafori o far servizietti
alla criminalità? Le prostitute sono tante perché c’è la
domanda. Dicono che diffondono l’aids, quelle povere ragazze. E invece si diffonde
perché il buon padre di famiglia va in Brasile e in Thailandia con le
bimbe e , peggio, anche coi bimbi, e poi se lo portano a casa l’aids, sotto
le lenzuola delle mogli e delle amanti."
"Ma ormai non serve più spender soldi per il turismo
sessuale, perché si trova tutto qui da noi."
Effettivamente in quel periodo si assisteva a un gran parlare
di pasticche e di discoteche, perché c’era scappato un ragazzo morto
e così i mass media s’eran scatenati. Mi chiedevo come facesse Jaco ad
essere così informato di tutto, come se leggesse i quotidiani e ascoltasse
i telegiornali. Probabilmente attraverso il computer ogni tanto frequentava
siti di giornali e televisioni, perché gli esempi e le battute che faceva
erano sempre particolarmente attuali. Comunque non ero molto d’accordo nel pensare
che una legge repressiva potesse risolvere il problema, e lo dissi.
"Lo sapevo che avresti tirato fuori questi argomenti,
ormai ti conosco…" .Il suo tono, pur serio e fermo, era comunque affettuoso
"…ma vedi, devono dare un segnale forte a questi ragazzi, che credono di
comprare la pasticca come si compra l’aranciata al bar, o la sigaretta dal tabaccaio,
o la pastasciutta al supermercato. Secondo me non sanno bene quello che fanno,
non sanno di essere dei tossici; queste sono droghe infide, lo sballo risulta
esaltato dalla musica e dalla frenesia collettiva, tutti le prendono e allora
è normale prenderle. I segnali che mancano sono i segnali politici, sia
per i ragazzi che per i genitori, che spesso si accorgono con troppo ritardo
del dramma dei loro figli. Gli effetti sul cervello pare siano devastanti, e
non credo che le cellule bruciate si possano rigenerare, ho l’impressione che
vadano perdute definitivamente. Direi che chi produce e chi vende a scopo di
lucro quella roba chimica pare ci mettano dentro di tutto, perfino gli anticriptogamici
tra i malfattori possa tranquillamente stare a fianco dei rapitori, degli
assassini e di coloro che usano violenza sui minori. La droga è come
un cancro, solo che quando ti trovano il tumore diventi un malato da curare;
chi assume sostanze stupefacenti è un drogato e basta!"
"E allora, se la pensi così, come fai a pensare
che la repressione vada bene per risolvere il problema?"
"E’ il male minore, bisogna interrompere la catena e i
ragazzi devono sapere fino in fondo di aver a che fare con roba che "scotta",
di aver a che fare con assassini e non con delinquentelli da imitare e magari
da ammirare."
"Non credi che si possano verificare effetti ancora peggiori,
magari avvicinando ancora di più la criminalità ai ragazzi?"
"Finchè i benpensanti continueranno a pensarla
così, tutto continuerà così. Devi capire che chi vende
anche una sola di quelle pastiglie è un assassino; quando ti sarà
chiaro questo concetto, vedrai che non penserai più solo alle attenuanti."
Non avevo voglia di controbattere, anche perché, in
realtà, avevo pochi argomenti su cui dissentire, se non una specie di
terrore per qualsiasi forma di repressione; capivo come Jaco non parlasse per
luoghi comuni, anzi; così non sentivo nemmeno quella strana lontananza
che normalmente si sente quando si capisce d’aver due visioni tanto lontane…
In realtà pensavo che Jaco potesse anche avere ragione.
Ritenendo comunque d’aver esaurito l’argomento, ormai consumato
il pasto, come sempre squisito, ci accontentammo di proseguire parlando del
più e del meno. Voleva sapere della mia famiglia, dei figli, dei miei
fratelli. Mi incalzava di domande su Sergio e Carlotta, sull’asilo, sui loro
amichetti, sui loro giochi. Mi chiese di guardare le vecchie foto in bianco
e nero, così gli raccontai bene di mio padre, di mia madre, del nonno
pittore, dello zio pittore, di mia nonna e dei miei suoceri.
"Perché mi hai chiesto di portarti su queste foto?"
"Perché vorrei scannerizzarle per il mio archivio
di volti per i quadri e per sapere di te. Avevo capito quanto fosse importante
per te la famiglia e quanto tenessi alla tua discendenza; volevo capire quanto
facesse parte di te e quanto ne fossi vittima."
"E cosa concludi?"
"Ma non scherzerai mica, vero? Abbiamo appena cominciato
a parlarne. Dobbiamo approfondire molte cose, dobbiamo parlare delle architetture
di tuo padre e dei quadri di tuo zio e di tuo nonno, mi devi raccontare ancora
un sacco di cose…"
"Cosa vuoi sapere?"
Le sue domande, incentrate molto per ora sulle opere e meno sugli aspetti
umani, diventavano sempre più precise. Alimentato da una sincera curiosità,
voleva sapere tutto sul loro modo di vivere l’arte, d’altronde già sapevo
quanto fosse epicentrico per Jaco l’atto creativo rispetto a tutto il resto.
Così cercai di mettere a fuoco i miei ricordi di ragazzo e le mie conoscenze
sull’arte veneta, in particolar modo veneziana e trevigiana, per inquadrare
un po’ il discorso in un qualcosa di più compiuto e meno personale. Partendo
da lontano, cercai di raccontare qualcosa sul mondo artistico veneziano nei
primissimi anni del novecento, dominato dal virtuosismo di Ettore Tito e dal
paesaggismo di Guglielmo ed Emma Ciardi, entrambi maestri di mio nonno Giacomo
all’accademia nel 1908. Ricordai qualcosa delle biennali di quegli anni che
dovevano essere veramente emozionanti e straordinarie. Giungevano a Venezia
i quadri degli impressionisti, ma soprattutto di Van Gogh e Cézanne ,
a Palazzo Pesaro nel 1910 esponeva Boccioni. Fra i tanti paesaggi, ogni tanto
affiorava il nuovo, e non solo ai Giardini di S. Elena, ma anche alla Bevilacqua
la Masa ed in qualche altra Galleria. Gli artisti rifiutati dalla Biennale esponevano
all’Excelsior al Lido e tra loro Gino Rossi, Martini, Moggioli, Springolo, Casorati
e tutto il gruppo di palazzo Pesaro, difeso coraggiosamente da Barbantini. Gli
esiliati a Burano, Rossi e Moggioli e qualche altro sferravano battaglie dure
e dolorose contro l’arte borghese ed il servilismo della critica dominante.
"Il nonno in quel periodo abitava in una stanzetta del
conservatorio a Palazzo Pisani in Campo S. Stefano. C’erano la Toti dal Monte
e lo Scarlino tra i tanti maestri che vi dimoravano. Oltre ai musicisti, frequentava
ambienti di artisti e di artigiani come i liutai ed uno in particolare, un decoratore
del maestro Beni, che costruiva grandi marionette per le rappresentazioni dei
pupi. Mi pare si chiamasse Canever. Frequentava Luigi Nono Fragiacomo, lo scultore
Dal Zotto e poi Laurenti, Milesi, De Maria. Conobbe Marinetti e passò
con lui qualche nottata. Nel 1912 si diplomò sia a Venezia che ad Urbino
e così entrò a far parte davvero del gruppo dei giovani artisti.
Poi la guerra spezzò tutto. Addetto al disegno ed al Diario di Guerra
dei reparti in trincea, fremeva così tanto d’amore per la patria e di
commozione per gli alpini uccisi, che volontariamente frequentò un corso
ufficiali in trincea. Subito promosso fu trasferito in battaglia sul monte Vodice.
Lì il nostro esercito perdette trentamila soldati. Poi fu trasferito
ad occidente di Cortina, infine a Vidor. Durante la battaglia sul Vodice, meritò
una medaglia d’argento, a Vidor una di bronzo. Poi fu gravemente ferito e, debilitato
da una terribile convalescenza, si ammalò di tifo e flebite. Salvo per
miracolo, fu finalmente distaccato a Ferrara, dove festeggiò la fine
della guerra nel novembre del 18. Dopo vari trasferimenti fra Roma e Milano,
dal 24 insegnò figura e copia dal vero all’università delle arti
figurative di Monza, poi chiusa nel 27, perché antifascista. Tornò
a Treviso, a Fagarè e fondò una scuola di arti e mestieri. In
quegli anni tra le due guerre intorno a Treviso, gente come Martini, Gino Rossi,
Springolo e molti altri, costruivano le fondamenta della loro pittura e si incontravano
alle mostre collettive ed alle varie esposizioni che si succedevano numerose
nelle gallerie d’arte sparse in un territorio vasto ed ancora in parte rurale
ed arcaico. Poi, dopo la seconda guerra mondiale, combattuta ancora in prima
linea, si trasferì a Venezia, in Campo S. Giacomo, ormai quasi sessantenne.
Il figlio Angelo e mio padre frequentavano un gruppo di artisti scapestrati
e bohemienne, tra i quali spiccano Tancredi,
De Luigi, Bepi Longo, Boldrin, Finzi, Rampin, Santomaso, Pizzinato, il critico
Berto Morucchio e molti altri. Il nonno invece esponeva molto, teneva conferenze,
frequentava Guidi, il poeta Mario Stefani, lo straordinario amico artigiano
Cadorin, qualche musicista e qualche critico più inserito nel sistema.
Il povero zio Elo, viveva in un mondo tutto suo, visionario e poetico. Sergio
invece, dall’università di architettura si fece amico Carlo Scarpa, suo
figlio Tobia, e Valeriano Pastor poi diventato rettore. La cosiddetta generazione
di mezzo, ancora poco conosciuta, che oggi chiamano sbagliando spazialista,
finì per dilapidare la sua storia stessa., nei cenacoli ribelli e nelle
osterie, tra i fumi dell’alcool, i suicidi, la follia. Pochi lo sanno e pochi
ne parlano, ma fu un’ecatombe. Il famoso falò di campo S. Giacomo resta
come il paradigma autodistruttivo di un’intera generazione di artisti sfortunati
ed incompresi. A casa dei miei, questa frattura si viveva in modo lacerante
ed emblematico. Il nonno esponeva, Elo combatteva contro tutto per salvaguardare
la sua libertà creativa, l’architettura di mio padre nasceva intorno
al maestri Scarpa e Albini. Così il contrasto generazionale diventava
devastante perché complicato anche e soprattutto da due modi diversi
di concepire l’arte. Poi il dolore per le condizioni di salute di Elo, attenuò
le violente discussioni e divergenze; fino alla fine, alla morte prematura del
giovane e disperato pittore. Venezia dedicò una grande mostra, un fregio
post mortem, ad Angelo nella sede prestigiosa di Cà Vendramin Calergi.
I critici si scatenarono, tranne Morucchio che scrisse "Se il povero Elo,
potesse vedere, se ne starebbe rintanato chissà dove, a guardare da lontano…"
In letto di morte lasciò il desiderio di non mercificare la sua opera.
Io me lo ricordo molto bene Elo. Veniva ospite da noi a Padova, quando s’ammalava.
Coi suoi capelli lunghi e lisci, le braghe di tela, i sandali ai piedi, la giacca
sformata piena di blocchetti, matite, penne; magrissimo. Ci raccontava di filosofia,
di poesia, ci accompagnava a vedere Giotto e Mantegna e ci portava nei campi
a vedere il grano e le case dei contadini. Ci sedevamo per terra e lui declamava
poesie cercando di spiegarcele, con una dolcezza infinita; con noi bimbi si
sentiva libero di esprimere i suoi sentimenti e si apriva diventando anche lui,
con noi, un giovinetto sognante. Purtroppo se ne andò prestissimo. A
me restò il desiderio di metter ordine tra le sue carte, cosa che feci
anni dopo, trovando una raccolta di poesie, molti scritti, ma pochi quadri perché
tutti distrutti. Ci lavorai su per un anno intero, con passione e commozione."
Vedevo Jaco così interessato alla storia, agli aneddoti,
ai ricordi di quegli anni, che fui felice di continuare. Conosceva l’opera di
Gino Rossi direi molto bene, e molto bene quella di Springolo, di Tancredi e
di Mario De Luigi. Ma, date le insistenze, capivo quanto fosse avido di conoscere
la storia delle prime esposizioni di Palazzo Pesaro e poi degli astrattisti
veneziani degli anni 50/60.
"Ti manderò sul computer alcune lettere di Gino Rossi a Barbantini,
dai primi del 900 al 27, quando fu ricoverato in manicomio. Quella è
una testimonianza straordinaria; un altro esempio di fede intramontabile nell’arte,
di sofferenza ed incomprensione, di coraggio e spavalda coerenza. In quelle
lettere si sente l’ambiente, l’ostilità della critica borghese, si sente
la distanza di una Biennale esterofila e disattenta, si sente tutto un mondo
di artisti che, intorno a Barbantini e Palazzo Pesaro, costruirono tra il 10
e il 20 una solida impalcatura per tutta l’arte contemporanea italiana. Quella
gente lasciò sui muri di quel palazzo il segno ormai impresso nella storia
dell’arte, di un rinnovamento tutto
italiano e tutto veneziano."
Continuammo così a lungo, mentre fuori tutto pareva immobile e congelato.
Dentro, invece, l’atmosfera calda e viva della casa di Jaco e dei nostri fervori,
riempiva lo spazio come uno spirito invisibile ma sicuramente presente. Quella
casa diventava il contenitore di due anime incantate e frementi. Mi pareva di
nuovo già mi era successo l’altra volta di tornare ragazzo, di tornare
com’ero a vent’anni, estasiato dall’arte e dal mondo. Sapevo bene quanta fatica
per arrivare fin lì; mi era lucidamente chiaro il tormentato percorso
delle nostre vite; ma dentro quella casa mi accorgevo di rinascere, in un sussulto
d’entusiasmi, in un sentire profondo, in una pace ritrovata. Mi distesi sul
foutòn a metà pomeriggio, felice ed appagato; a guardare i travi
sul soffitto e a sognare; Jaco intanto armeggiava sul computer, in silenzio.
In seguito decise d’accompagnarmi a fare due passi fuori, prima di andare a
lavorare in stalla. La neve dura scricchiolava sotto gli scarponi; gli alberi
intorno, come paralizzati in un’aria immobile, parevano scolpiti sul ciglio
dell’altipiano. Il cane scorazzava in su e in giù, giocherellone ed allegro;
Jaco sembrava non sentisse il freddo, che invece a me pareva intenso e pungente.
Ci addentrammo per un po’ nel bosco a guardare le impronte degli animali
selvatici, evitando quelle delle martore perché porta male, incantati
anche noi come il paesaggio. Quel giorno incontrammo orme ed escrementi
di cervo maschio e femmina, di capriolo, di lepre bianca, di topo selvatico,
di scoiattolo, di molti uccelli e perfino di una pernice bianca. Tornati giù,
ci recammo dagli animali. Mi spiegò perché ancora non fosse necessario
scaldare la stufa. Col forcone tirammo giù un po’ di fieno, poi controllammo
che il mangime scendesse regolarmente dal dispenser; raccolse quattro uova dal
recintino delle galline, infine si fermò a coccolare Picchio, l’asinello.
Tornati in casa ci dedicammo con cura alla preparazione di
una cenetta speciale, perché Jaco voleva festeggiare. Passammo una serata
indimenticabile al computer, discutendo a lungo su alcuni quesiti e suggerimenti
inviati nel sito internet. Ne venne fuori qualcosa di buono, ci sentivamo ispirati.
Jaco, sprezzante ed ironico, serio ma divertito, allegro, maneggiava il computer
ad una velocità impressionante; come niente fosse, teneva aperte un paio
di conversazioni in tempo reale e contemporaneamente, discutendo con me, inviava
risposte e messaggi. Lavorammo un po’ sulla città; io proposi anche l’inserimento
di un edificio , tra le pagine delle ‘architetture indimenticabili poco conosciute’
e ragionammo sul concetto d’identità dei luoghi.
"Io non credo più di tanto al genius
loci, nel senso dell’anima di un luogo e del destino inscritto nelle pietre.
E’ un concetto debole, insufficiente per capire il significato di identità
che è ben più complesso."
Jaco, in quel periodo, stava ragionando molto sul concetto
di luogo, lo si vedeva dal sito, ma anche da ciò che scriveva nei fondi
dei quadri; ma soprattutto lo si capiva sentendolo parlare: "Anche se davvero
esistesse un’anima o una vocazione del luogo, questa sarebbe comunque un’anima
traditrice, infedele e paurosa."
"Perché dici questo?"
"Perché gran parte dei luoghi che conosco, parlo
delle nostre terre, hanno perso la loro anima. La gente è spaesata.
L’anima dei luoghi la fa la gente, con le sue memorie, con
il ripetersi di usi e costumi, rigenerando attraverso complesse stratificazioni
storiche e modificazioni, il significato stesso dei luoghi. Ma se la gente è
spaesata, se la gente vive come immersa in un mare desertificato, imputridito,
intorbidito; se la gente non sa più di dov’è, da dove viene; se
la gente non conosce e non sa dei posti, dei paesi vicini, dei fiumi, dei monti,
né tantomeno delle usanze e delle tradizioni locali perché si
è persa, con la gente si perde anche il genius loci. E così gli
amministratori rifanno le pavimentazioni dei centri storici e gli architetti,
disegnano profili, diagonali, triangoli, per firmare anche lì, nelle
piazze, la loro egocentrica creatività esaltata ed esagerata. Nelle nostre
terre il genius loci si è già volatilizzato, è sparito
perché è sparita l’identità del popolo, perché è
mutata l’anima della gente, perché la storia è sparita.
Prima di venire qui, avevo trovato un bel posticino, nella
zona di Montebelluna. Mi piaceva molto. Andavo al paese a chiedere, a farmi
raccontare storie, a raccogliere informazioni. Nessuno sapeva niente. Tutti
al lavoro, in fabbrica e poi tutti ai centri commerciali e poi tutti al cinema
e in discoteca. Nessuno sapeva nulla del paese vicino, del colle a fianco, delle
coltivazioni, delle piante, dei cibi, degli orti, degli animali E le pietre
mi sembravano mute, mummificate. I pochi luoghi sopravvissuti al deserto cementificato,
ormai schiacciati dalle villette plastificate e dai prefabbricati industriali,
ormai abitati da qualche povero vecchio o dai nuovi mutanti, quei piccoli borghi
parevano rovine; archeologia di un passato prossimo in veloce decomposizione.
La frattura fra le generazioni è drammatica, impossibile da gestire e
da capire, il distacco è provocato da forze "altre", lontane,
incomprensibili. E’ ben più dell’omologazione Pasoliniana, già
concreta negli anni ottanta; è una perdita definitiva,ormai compiuta.
Il posto che avevo individuato era un pascolo pedemontano a circa 800 mt. di
quota, molto bello. Ma era troppo vicino allo scempio, al desertificato accumulo
di quadrotti cementificati, alle linee dell’alta tensione, ai ripetitori, ai
tir, alla folle rigenerazione di una vita estranea ed incomprensibile. Non ho
trovato un giovane disposto ad accettare uno scambio con me, né un vecchio
disposto a ricordare qualcosa, né una donna disposta ad insegnarmi una
ricetta in cambio di qualcosa che non fosse denaro. Tutta bella gente, ma persa,
lontana, SPAESATA.
Quei posti bellissimi, privati della loro anima, martoriati
da uno sviluppo mostruoso ed incontenibile, falciati dall’ignoranza e dall’incultura,
parevano indifese trincee, ultimi avancorpi prima della distruzione "
Lo ascoltavo pensando con rammarico a quanta memoria avevo
io stesso lasciato per strada. Sentendolo mi venivano in mente Paolini, ma anche
Meneghello, Zanzotto, Rigoni Stern, e i racconti di monti e di mare di molti
anziani con cui cerco a volte di parlare.
" Qui è diverso, c’è come una sana verginità
dell’aria, della terra, della pietra. La gente convive col paesaggio e con la
natura con un rispetto assoluto e profondo tramandandosi per necessità
trucchi del mestiere, esperienze, maestrie, perché senza di queste non
si sopravvive. Molti se ne vanno, ma quei pochi che restano, coltivano tutti
i giorni con l'orto, anche l’anima delle pietre, cosicchè qui camminando
in un sentiero senti davvero qualcosa, un’intensità vera e semplice,
un’armonia, una spiritualità alta e severa, una sensibilità tutta
particolare. I vecchi sono saggi da rispettare come dei capi e dei riferimenti.
Ecco che il genius loci prende corpo, perché la gente lo trattiene, lo
invita a piantar radici, lo sostiene."
"E come fare allora?"
"Io penso sia necessario ravvedersi. Intanto bisogna cominciare
a prendere coscienza del fatto che la mutazione si stà verificando indipendentemente
dalla volontà di ciascuno di noi. E’ un processo in atto, grande quanto
il mondo intero; mostruosamente inconsapevole ed incontrollabile. Bisogna tirar
su qualche barricata e cercar di difendersi. Penso sia necessario trovare un
modo per minare alla radice alcune drammatiche degenerazioni: bisogna battersi."
"E come?"
"Ad esempio iniziando a defilarsi, a rinunciare"
"A cosa?"
"A volere tutto!"
"In che senso?"
"Ciascuno nel proprio ambito, deve sforzarsi per ridare
pregio alle cose vere della vita."
"Mi sembra un po’ vago."
"Bisogna battersi. Gli intellettuali devono smetterla
di nascondersi, devono parlare, fare la voce grossa, combattere l’incultura
dilagante, il progresso cieco, la distruzione. Gli architetti devono smetterla
di fare i servi dei turbocapitalisti, devono combattere contro la volgarizzazione
del territorio, contro la distruzione delle città, contro l’invasione
della cultura antropocentrica, superliberista, solipsista, contro il dilagare
di uno scempio mortale, definitivo. Devono pensare ad abbattere, invece che
pensare a costruire, devono inventare nuove metodologie progettuali per rigenerare
un po’ di conoscenza e di civiltà, devono darsi da fare per ricostruire
una nuova etica professionale. Gli artisti devono diffondere conoscenza, proponendo
ed anticipando, in modo da poter contribuire anche loro a deviare il flusso,
la marea montante. I politici devono soprattutto ritrovare legalità,
etica e moralità; devono staccarsi dal business, devono tornare a pensare,
devono inventare nuove regole per contenere il commercio indiscriminato. Gli
industriali devono produrre impegnando le risorse sconfinate che posseggono
per ricercare un concetto di sostenibilità dello sviluppo e devono tra
loro, nelle loro associazioni, impegnarsi a diffondere un po’ di cultura del
progresso, limitando il più possibile gli errori, denunciando i frequenti
crimini contro l’ambiente, cercando di isolare sempre più l’ignoranza.
Lo stato padrone, l’industriale padrone, l’artigiano padrone in contrapposizione
con la classe operaia spariranno per far posto a qualcosa di più innovativo
ed interessante. Poi c’è il problema delle libertà: se le leggi,
la burocrazia, il controllo su tutto, hanno portato a questo, a ciò che
vediamo oggi, allora è meglio cambiare anche se in questo secolo molti
gradi di libertà personale sono effettivamente migliorati. Lasciamo più
libera la gente di organizzarsi come vuole la propria vita e le proprie interazioni.
Legiferiamo intorno ai macroobiettivi, comuni ad un popolo intero, come la lingua,
la scuola, la sanità, la moneta, la vecchiaia, le infrastrutture, la
difesa, i trasporti, la salvaguardia del patrimonio artistico, naturalmente
combattendo la criminalità, il sopruso, la violenza. Semplifichiamo tutto.
Delegiferiamo! Diamoci un taglio: semplifichiamo le leggi, la burocrazia, la
giustizia. Poche regole ma buone per tutti. Bisogna gettare via tutto per ricominciare,
altrimenti così andremo a finire male, molto male. Ognuno nel suo piccolo,
deve dare il suo contributo di opposizione e di rinascita, a testa bassa senza
esitazioni. Bisogna combattere perché l’orrore provocato fin qui è
sotto gli occhi di tutti e non è confutabile. Bisogna darci un taglio
netto."
"Sì, va bene; ma il consenso sui nuovi modelli
è lontano a venire. Sul fatto che sia necessario porre dei freni e cambiare,
siamo tutti d’accordo. Solo che alcuni vogliono cambiare perché vogliono
più liberismo economico, altri perché vogliono limitarlo. E allora?"
"Ognuno deve dare il suo piccolo contributo. Ogni testa
pensante deve farsi avanti e divulgare il rifiuto, palesemente senza meschine
bugie, senza maschere"
"Ma bisogna pur vivere" interruppi Jaco "bisogna
pur sempre portare a casa del denaro per crescere i figli, per mangiare, per
la scuola, per la loro vita"
"Bisogna farlo rinunciando alle compromissioni allucinanti
che si è costretti ad accettare se si cerca solo il successo economico,
la scalata sociale, la carriera, l’automobile, i corpi e le forme delle top
model!. Bisogna indicare una via, delle linee guida, dei percorsi. Solo così
i giovani vedranno un’alternativa. Ed ogni rinuncia deve diventare pubblica
e più importante di tutto il resto; deve acquisire valore non solo simbolico
per demolire le fondamenta dei falsi miti di oggi."
"Ma chi potrà farlo?"
"Tu in parte lo stai già facendo, cerca di insegnarlo
ai tuoi figli. Portali a vedere le campagne, le montagne, le baite, i casoni
in laguna, i pescherecci, i falegnami, i frantoi, i restauratori, i contadini,
invece di portarli al cinema, al calcio, ai musei, che per quello c’è
tempo. Portali a parlare con i vecchi. Insegna loro a conoscere le piante, gli
alberi, le foglie. Insegna a conoscere le pietre e i marmi. Raccontagli di come
vivevano i nostri nonni, raccontagli della guerra, della fame, dell’amore per
la patria e la propria terra. Fagli vedere che progetti cose vere, normali e
buone. Che stai attento a tante cose quando lavori. Fagli conoscere la realtà
per quella che è; tirali su che possano giocare da soli e gioire con
un sasso o una foglia; togli di torno tutte le futilità e le bruttezze,
elimina tutti quei giochi di marca, butta via i cesti pieni di plastiche. Un
regalo deve essere una conquista rara ed importante. Insegna il dialetto, fai
vedere loro i fiumi e le lagune e che imparino tutti i nomi. Che conoscano le
storie della gente, della città, dei monumenti. Spegni la televisione
e la radio; cerca di eliminare il più possibile, togli più roba
che puoi da casa, e se non ce l’hai non la desiderare e fai in modo che loro
non la vogliano. Trova un bel posticino vicino a casa e vai a vedere le stagioni,
il caldo e il freddo, l’aria, l’umidità, i vermetti e gli insetti. Sono
queste le cose che devi fare per i tuoi figli. Capisci che è tutto sbagliato
fin dall’inizio?"
"A dirsi è facile."
"E’ facile anche a farsi. Basta volere. Se tutti cominceranno
ad acquistare meno, allora pian piano cambieranno i bisogni e le industrie si
adegueranno; la gente cambierà visuale, gli obbiettivi torneranno ad
essere altri e più importanti.
A chi importa più di farsi una cultura, oggi?
Importa lavorare, lavorare, lavorare per comprare, consumare,
buttare. Comprare, consumare e buttare."
"Certo si dice che l’uomo nasca nel giardino dell’eden.
E quel giardino dove è nato l’uomo è anche un giardino interiore.
Probabilmente è a causa della distruzione progressiva del giardino, -
dell’ambiente, dell’aria, dell’acqua che pian piano il giardino interiore
con essa risente di una lenta decomposizione in una perdita continua, tanto
da provocare in ampie fasce sociali la cosiddetta depressione collettiva, la
malattia sociale del nostro secolo. Ecco di nuovo l’identità: l’identificazione
è una modalità primordiale di attaccamento ad un quid; l’identità
consente l’identificazione. Ma l’identificazione al simbolo del giardino non
è più data, perché oramai il giardino non c’è più.
A questo bisogna aggiungere, e sono pienamente d’accordo sulla debolezza del
concetto di genius loci dello spirito dei luoghi e dei monumenti che edifici,
città e campagne rivelano a posteriori attraverso il tempo della storia,
la loro identità inderogabilmente interrelata con l’ambiente naturale
e culturale. In una dialettica discordante tra i mille sottili mormorii contraddittori
della storia, tra l’equivocità dubbiosa di mille tracce e segni ambigui;
solo attraverso un dialogo interpretativo tra l’interrogazione dei luoghi, delle
campagne, degli ambienti naturali, delle città, con un’attenta analisi
storica nel tempo e nello spazio, solo così potremo cercare di capire
qualcosa sull’identità dei luoghi. Certo è vero che oggi, in alcune
aree geografiche come la nostra, martoriata e profondamente diffamata da quest’idea
nordestina di sviluppo cieco ed incosciente, perdendo la gente stessa la propria
identità, allora è più facile che i luoghi rimangano deturpati
anche in quei centri invece così ricchi d’identità storica e spaziale."
"Eh sì, caro architetto ! Ma non serve filosofeggiare
troppo, intorno a questi temi. La gente non si ritrova più, è
perduta: ma come potrebbe non essere così in territori completamente
cementificati, asfaltati, elettrificati, grigi, sporchi, disordinati, inquinati,
nel deserto di cemento, nell’inferno di ricchezza; dove è quasi impossibile
trovare un percorso per camminare, dove una pioggia allaga tutto, dove il traffico
la fa da padrone, dove il rumore ti martella le viscere, dove l’aria sa di fumo,
è cattiva e piena di radiazioni elettromagnetiche. La distruzione del
territorio è solo una parte della distruzione totale a cui stiamo andando
incontro: pensa che in questa nostra civiltà assurda i vecchi diventano
carne da buttare e un costo per gli altri già molto presto. Pensa che
stupida realtà: i vecchi sono l’essenza del mondo, sono l’anima della
civiltà. Immagina di vedere un albero secolare con i suoi nodi e le sue
forme ritorte, grande e solido. Un albero secolare è sacro, incute rispetto,
ammirazione, anche soggezione; è protettivo, dà sicurezza. Questo
dovrebbero essere i vecchi e così sono sempre stati, anche tra gli indigeni,
gli indiani, i polinesiani e non solo nelle civiltà evolute. Oggi invece
i vecchi vengono abbandonati alla loro solitudine, in uno stato di inutilità
e peggio di peso per gli altri e la società intera. La lentezza, la libertà
nel giudicare, i valori del tempo passato, il tornare bambini con dentro di
sé una vita intera di esperienza, tutto ciò non è utile
a questa volgarissima cultura della produttività, dello sviluppo superveloce
e del consumo di massa. Il vecchio non produce, tramanda cultura che non serve
e allora sacrifichiamolo come sacrifichiamo gli alberi secolari magari per fare
un orribile condominietto di miniappartamenti. Dobbiamo fare di tutto perché
i vecchi e gli alberi secolari vengano valutati almeno più importanti
del quotidiano consumo di futilità: le sovrintendenze dovrebbero vincolare
gli alberi, invece di imbrigliare nella burocrazia chi ha bisogno di mettersi
a posto la vecchia casa, e gli uomini dovrebbero valorizzare con sacro rispetto
la vecchiaia.
Ma vedi che siamo sempre allo stesso punto: è la forma
stessa della nostra società che ormai non è più accettabile:
il terzo mondo alla fame, i paesi altamente industrializzati ormai vicini a
fratture definitive, il liberismo esasperato del turbocapitalismo disordinato
e feroce, la tecnologia e la scienza troppo asservite a macroobbiettivi economici
come la mutazione dei cibi transgenici per aumentare velocità e profitto
o peggio la continua creazione di bisogni che tali in realtà non sono.
Il degrado di questa civiltà è giunto ormai al capolinea. Bisogna
comprenderlo . Chi ne ha la forza deve battersi, chi non ha la forza non deve
far altro che attendere, qualcuno se vuole può cominciare a tirarsi fuori,
a negare a rinunciare, a defilarsi da logiche oramai divenute inaccettabili
dal punto di vista etico, come inaccettabili sono la guerra, la violenza, lo
stupro. Noi stiamo assistendo allo stupro violento di un mondo intero, alimentato
da pochi in una spirale infernale entro cui stiamo tutti."
"Capisco cosa vuoi dire, ma non posso essere d’accordo
completamente sul tuo ragionamento. Pensa, nel succedersi della storia, quante
volte la civiltà è rinata dalle macerie di una precedente in declino.
E sono sempre stati gli uomini i fautori della rinascita."
"E’ quello che dico anch’io, in verità. Dico che
è necessario prendere coscienza della fine, prima che sia troppo tardi,
per salvare il salvabile e per cominciare a delineare un futuro possibile, una
nuova era."
Ce ne andammo a letto verso le 10.00. Mi addormentai quasi
subito, pensando a quanto detto fin lì, allo spadroneggiare sfrenato
del mercato globale, a questo nuovo scenario mondiale ove il modello occidentale
invasivo ed incombente ha trionfato ovunque con un risultato che ci viene presentato
spesso come il migliore possibile.
"Ma è davvero così?" pensavo "Questo
mondo offende la dignità umana". "Ma allora l’idea di Jaco
di opporsi, di battersi, con tutte le forze, non è quella giusta ?"
"La situazione è pessima", pensavo, "si
va come naufraghi verso la menzogna, verso la servitù cieca ad un comandante
che non c’è, che non sa timonare nel mare in tempesta. Si va verso il
nulla…"
Il mattino seguente, come sempre, Jaco discese verso le 5.30, tranquillo e di
buon umore. Lo aspettavo. Con la sua teutonica regolarità, come atavica
memoria di usanze scolpite nei muri , preparando la prima colazione, ripeteva
i gesti abituali d’ogni mattina. Rassettava, puliva, mescolava le colle nelle
ciotole, sceglieva nel magazzino il cibo della giornata. Un po’ di thè,
una fettina di pane caldo, un po’ di miele delle sue api; il fuoco da rinvigorire
per scaldare un’aria freschissima a cui mi stavo comunque abituando, la pentola
già sul fuoco per il pranzo e la cena. Fuori buio.
Lo guardavo, cercando di attardare il più possibile
la mia sortita dal sacco a pelo, nella speranza che il focolare stemperasse
l’aria. Riservato e gentile come sempre, s’infilò in bagno silenziosamente,
dopo aver poggiato la tazza del thè bollente vicino al mio giaciglio.
Verso le sei eravamo pronti, vestiti e rifocillati. Fuori ancora buio. Jaco,
dopo aver acceso l’impiatino a 12 volt, inserì nel compact un’intensa
esecuzione di Maria Callas e con essa si concentrò davanti al quadro,
come credo d’abitudine tutte le mattine. Io, seduto sul tavolo, incantato dal
fuoco e dalla musica, godevo nell’emozione provocata ascoltando la "divina".
Ma entrambi sapevamo che di lì a poco, la nostra discussione
sarebbe ricominciata, per tentare di avvicinarci allo stadio finale del ragionamento;
per parlare di utopia e di opposizione.
(In quel periodo avevo anche letto qualche libro e qualche saggio sull’argomento
, come quello di Giorgio Bocca il secolo sbagliato ,o quello del sociologo urbano
Ilardi negli spazi vuoti della metropoli , o quello di Madera l’animale visionario
oppure la nuova intervista a Hillman;
poi avevo visto i ritratti fatti da Paolini e Mazzacurati a Rigoni
Stern e Zanzotto.) Mi rendevo conto che, ciascuno a suo modo, alcuni pensatori
cominciavano a dare voce, a scrivere, a parlare della distruzione, del caos,
del vuoto provocato dalle mutazioni superveloci del novecento, ma anche di orrori,
di errori, di falsi miti… Con alcuni di loro trovavo assonanze, con altri mi
sentivo in completo disaccordo. Ma così mi rendevo conto di come Jaco,
sia pur isolato, dal suo eremitaggio, non fosse poi così visionario oppure
esagerato detrattore e non fosse poi così solo nel considerare la situazione
in modo tanto tragico e devastante. Al contempo non riuscivo a distogliere i
miei pensieri da alcuni riferimenti positivi che, soprattutto negli ultimi anni,
in fondo avevano alimentato le mie speranze. Pensavo al progresso scientifico,
alla nuova tecnologia, a quanta strada verso un mondo migliore la scienza era
riuscita a percorrere soprattutto nell’ultimo secolo. E così pensavo
che, come nella storia dell’arte la dialettica tra classico ed anticlassico
fosse sempre stata il fulcro dell’innovazione, così dalla rivoluzione
industriale in poi, il dualismo, purtroppo conflittuale, tra umanisti e scienziati
sia sempre stato il tizzone per accendere il fuoco del nuovo. Pensavo a quanto
inadeguati, siano oggi, gli umanisti rispetto ai matematici; a quanta superbia
intellettuale tra le righe inutili di troppi saggi illeggibili ed impraticabili,
e a quanta fantasia ed inventiva invece nei lavori di famosi scienziati (come
Edward Wilson, oppure Murray Gell- Mann oppure ancora Arno Penzias) e di chissà
quanti giovani sconosciuti che lavorano per scoprire ciò che prima non
c’era o non si conosceva. E così mi sentivo confuso, non riuscivo a trovare
il bandolo della matassa, non riuscivo a sintetizzare, a trovare schemi soddisfacenti
entro cui far correre i molti ragionamenti, i dubbi e qualche idea che più
insistentemente percorreva la mia mente così carica di domande ed ansiosa
di verità.
Oscillavo tra l’osservazione delle grandi malattie incurabili di un mondo
nuovo difficile da capire, e l’osservazione delle straordinarie innovazioni
tecnologiche e scientifiche, capaci di aprire nuovi orizzonti vastissimi in
tutti i campi. I pensieri saltavano altalenanti tra i due poli del pendolo,
provocando in me la curiosità di provare una sintesi tra tecnica e poesia,
tra matematica e filosofia, tra astrattismo e verismo, tra arte e scienza, come
per i fisici, gli astronomi ed i matematici tra l’infinitamente piccolo e l’universo
infinitamente grande. In realtà nella mia idea di arte e di architettura,
non avevo mai accettato di separare la conoscenza dalla Technè, l’estetica
dalla tecnica. Ne avevamo già parlato con Jaco di quest’idea dell’arte
vista come un fare che attraverso l’uso ed il dominio di una tecnica precisa
offre all’uomo un contributo di conoscenza e di contenuti non necessariamente
estetizzanti o belli ma sicuramente nuovi ed anticipatori per vocazione intrinseca.
Separare la Technè dall’attività spirituale o dall’idea è
come immaginare Leonardo che pensa la Gioconda e la spiega ad un ragazzo di
bottega per disegnarla; oppure immaginare Ungaretti in trincea che pensa all’immagine
dell’alba o allo stare dei soldati e si fa scrivere i versi da un diplomato
che presta i suoi servigi agli sventurati alpini analfabeti per leggere loro
le lettere. Ma come si può pensare di separare la tecnica dal pensiero
in campo artistico? E’ una distorsione grave, un errore grande come una casa.
Per pensare di costruire un edificio bisogna progettarlo, per progettarlo bisogna
disegnarlo, per realizzarlo bisogna calcolarlo. Altrimenti se fosse possibile
questa separazione, allora si potrebbe solo pensare l’architettura per poi attendere
speranzosi che una "fata
smemorina" con la sua bacchetta magica. Altrimenti quanti poeti, quanti
pittori, quanti scultori. E se non ci fosse l’innovazione tecnologica allora
vivremmo ancora in case costruite di paglia e terra, costruiremmo ancora come
gli antichi in modo trilitico usando grandi masselli di pietra. Mi assalivano
i dubbi: ma quale opposizione? Ma perché battersi per fermare il progresso???
Quello che c’è da fare oggi è seguirlo il progresso, cercando
di utilizzare al meglio l’accelerazione tecnologica, cercando la rotta tra le
onde di un mare informe e sconosciuto. Usarla, questa tecnologia, per migliorare
e per migliorarsi, per non affogare!
"In fondo Jaco" pensavo "sa usare il linguaggio HTML,
usa il computer come un drago, masterizza, scannerizza, progetta quotidianamente
innovazioni al suo sito Web, porta fuori dal computer immagini e tecniche varie
di scrittura e le mette su i suoi quadri; in fondo non nega la tecnica, anzi
tutt’altro; la utilizza al meglio per i suoi scopi e pur vivendo come un montanaro
d’alta quota o un eremita d’altri tempi, con internet è molto più
avanti di molti altri, anzi direi di quasi tutti gli altri che conosco; la sua
opposizione non è contro la tecnica o l’innovazione , bensì contro
il predominio del profitto e del consumo massificato, contro il sovrapopolamento
indiscriminato di oggetti e bisogni, contro la distruzione cieca del pianeta,
dell’ambiente, delle campagne e delle città"
Ormai s’era fatta l’ora di parlare e così gli proposi
l’argomento:
"Ma se bisogna opporsi, allora in qualche modo è
necessario porre un freno all’innovazione, alle scoperte scientifiche, al tecnicismo
? Com’è possibile frenare lo sviluppo, se non fermando la ricerca e l’evoluzione
stessa del pensiero scientifico??"
"Non è questo il problema; è la separazione
parcellizzata dei saperi e dei poteri , nell’assenza di una visione di sintesi,
di uno sguardo d’insieme, di un’idea unitaria nelle impercettibili ed inspiegabili
interconnessioni tra il semplice e il complesso, tra l’ordine e il caos, tra
il previsto e l’imprevisto; un’idea di sintesi su questo tessuto di milioni
di fili che è il mondo in cui viviamo. Troppo spesso gli specialisti
procedono col paraocchi nello studio del loro dettaglio, fregandosene di guardare
all’insieme, dimenticandosi del resto, senza porsi problema alcuno sugli utilizzi
eventualmente distorti di una scoperta o di una invenzione.
Non ho mai condiviso i pensieri di quei filosofi detrattori
delle scienze che si oppongono al razionale per ideologia, ma bisognerà
pur dire una volta per tutte che troppo spesso le teorie prevalenti sono quelle
sostenute dal business; bisognerà pur dire che, nel mondo scientifico,
il vizio di separatezza e della superspecializzazione alimentato dalla fede
per l’innovazione tout court, può portare ad errori, a distorsioni e
perfino ad orrori. Altrimenti dovremmo dar ragione a quel medico criminale nazista
che ad Aushwitz sperimentava le sue macabre idee su quei poveri bimbi e soprattutto
su quei gemellini per scoprire le cellule della razza pura; altrimenti dovremmo
dar ragione a quei criminali che sperimentano le armi batteriologiche, le armi
etniche e quant’altro di obbrobrioso si sente raccontare in giro. Allora se
contasse solo la fede incondizionata per la scienza e l’innovazione, senza una
visione d’insieme, in nome di questa fede potremmo fare di tutto. Per fortuna
che molti scienziati - mi ricordo in proposito di aver letto un documento interessantissimo
del Santa Fè Institute si pongono quotidianamente questo problema.
Per far fronte agli immensi problemi della terra, ecologici e sociali, occorrono
nuovi strumenti, nuove teorie, non bastano più l’analisi e lo studio
di tanti sottosistemi. Gli scienziati ed i ricercatori devono lavorare insieme
con i filosofi, con gli antropologi, con gli psicologi, con gli economisti e
perché no, con gli artisti e gli architetti per progettare un percorso
sostenibile di questa globalizzazione accelerata ed irrefrenabile nel tentativo
di conciliare il radicalismo finanziario, l’espansione di un liberismo economico
troppo esasperato, le ragioni dello sviluppo con quelle dell’equità senza
per questo ricorrere allo statalismo e al dirigismo unilaterale."
" Parli di quell’indiano economista, il premio Nobel Kumar
Sen?" lo interruppi.
"Anche, ma ce ne sono altri economisti che cercano di
allargare la loro visione al di là del puro bilancio e di una fredda
statistica occupandosi anche di valori, e delle attività umane più
disparate. Allora, dicevo che bisogna fare in modo che tutte queste menti si
riuniscano per trovare una linea guida, approssimativamente perseguibile da
tutti; perché si possa trovare la maniera per salvarci, altrimenti finiremo
male. Se proseguiremo così, nell’incomunicabilità totale e planetaria
tra tutti i sistemi dei saperi e dei poteri e tutti i sottosistemi delle discipline,
delle teorie e delle arti, allora il predominio cieco della distruzione e della
competizione economica sovrasterà l’uomo, schiacciandolo, annichilendolo,
svuotandolo.
Non so cosa bisogna fare, ma credo che una sintesi tra un’idea
rinascimentale armonica e neoplatonica, e un’illuminismo scientista e tecnocratico,
attraverso le nuove libertà ed i nuovi scenari della grande rete, ecco,
credo che questa sia una buona strada. Non per fare un’asta mondiale al ribasso
dei saperi, al contrario per inventare una nuova economia, più aperta,
più comprensibile, più fantasiosa. Per partecipare, per aprire
la democrazia al nuovo mondo e al nuovo modo di pensare il mondo, per non perdere
la cognizione di sé, per ritrovarsi, per portare un contributo. Il concetto
di armonia è centrale. Nella grande rete si potranno fare grandi cose
ed inventare nuovi spazi di libertà, di opposizione e di autodifesa.
Molte antiche regole o costumi economici, commerciali, ma anche sociali verranno
sovvertite in pochissimo tempo. Questo è ciò che potrebbe avvenire,
ma credo che la realtà sarà diversa, purtroppo. Gli squilibri
aumenteranno, i focolai di guerre etniche di questo tragico periodo si allargheranno,
gli scompensi economici diverranno sempre più macroscopici, la distruzione
del pianeta continuerà irrefrenabile. L’utopia non c’è, non può
esserci; almeno io non riesco a vederla davvero, nemmeno nella mia utopia antropologica
ed ecologica di ricerca di una buona dimora personale"
Mi ero illuso, ma Jaco non voleva proprio distogliere la sua
mente dall’idea di un destino ormai incontrollabile di declino, mascherato sotto
le vesti di una vana ricerca di benessere; nascosto, occultato dall’apparente
crescita di ricchezza e di successo dell’attuale modello di sviluppo.
"Io sono sicuramente d’accordo con te sul fatto che la
globalizzazione dell’economia favorisca in maniera massiccia l’espansione di
grandi aree geografiche socialmente povere ed emarginate; come condivido anche
l’idea che la società avanzata abbia fallito il suo obbiettivo di coesione
tra sviluppo e libertà, tra benessere ed equità. Anche l’idea
di rendere lo Stato come garante della redistribuzione del reddito allo scopo
di livellare le disparità, in realtà nel 900 ha fallito oltre
ogni più pessimistica previsione. E’ anche molto pericolosa questa emersione
degli "analfabeti dell’industrializzazione" li ho sentiti chiamare
così proprio da qualche amico industriale annegati nell’incultura,
privi sia delle basilari cognizioni democratiche che liberali; il loro salvagente
è il denaro, l’unico Dio, l’unica Madre, l’unico Padre. Altro che i vecchi
eroi del capitalismo. La contrapposizione tra destra e sinistra è morta
e sepolta, la dialettica tra le classi sociali anche, come le ideologie e le
utopie. L’unico dittatore è il mercato allo stato puro; come disciolto
nel pianeta, invade e pervade tutto, si infiltra dappertutto come una colata
di un liquido denso ma anonimo, trasparente, impercettibile, intoccabile. Questo
che alcuni ed anche tu chiamate "turbocapitalismo" non è governabile
con atteggiamenti autoritari, statalisti, restrittivi, moralisti o giacobini.
Né tantomeno con le teorie dei nipotini di Nietzche e Heidegger tanto
in voga oggi soprattutto in Italia. Alcuni di questi addirittura esaltano la
qualità del costruito diffuso, come qui da noi nel Nord est, - la Los
Angeles Veneta esaltano le periferie ed i suburbi e poi scopri che loro abitano
nei loft minimalisti firmati, adiacenti ai parchi ed ai centri storici. Questi
signori cercano gli antidoti al capitalismo pensando a questo come se fosse
un sistema omogeneo di poteri, rigido e compatto; sono i postcomunisti che provano
ad inventare nostalgicamente terreni su cui lottare; ma quella contrapposizione
non c’è più. Il neocapitalismo avanzato è come l’aria intorno
al pianeta, buona o inquinata, pura o fumosa, limpida o fetida, ma è
ciò che respiriamo e con essa dobbiamo vivere, ad essa dobbiamo adattarci
anche quando raschia i polmoni. Te l’ho già detto più volte: con
tutto questo, però, non riesco proprio a credere né all’apocalisse,
né alla catastrofe, né alla fine dell’uomo e del suo pensiero.
C’è ancora tempo, c’è molto da fare, molto da imparare; c’è
da adeguarsi, quotidianamente ed instancabilmente. Bisogna adattarsi a cercare
di far bene il proprio mestiere attraverso un’idea conciliante di una possibile
convivenza pacifica e sostenibile. Non bisogna perdersi, bisogna resistere a
questo modus vivendi dilagante della spettacolarizzazione, prestazionistico
ed estremo, negli anni della fine del moderno. E’ un conflitto storico, questo
dell’opposizione tra il rifiuto di un mondo sbagliato e l’utopia della sua valorizzazione
Bisogna lavorare ‘a togliere’ per ricercare normalità, serenità,
ordinarietà; bisogna semplificare, bisogna abbattere, bisogna diminuire"
Passai con Jaco altri tre giorni meravigliosi, durante i quali disegnai moltissimo
ed annotai una prima succinta stesura di appunti sul suo modo di concepire l’arte,
l’architettura e la vita. Raccolsi una serie di schizzi per dei progetti di
design che avevo in corso, e mi concentrai molto intorno alla prima concezione
di un piccolo edificio universitario. Intanto lui completò il quadro
bianco e realizzò un blocco intero di ritratti con la sanguigna dalle
mie vecchie foto di famiglia, ascoltando ancora e più volte il concerto
per piano ed alcune esecuzioni di Maria Callas. Continuammo a parlare d’arte
e d’architettura, ma non discutemmo più di politica e di temi generali;
cercammo invece di mettere a punto i nostri pensieri sul costruire, sulla città,
sul fare pittura. Jaco m’insegnò ancora molte cose su Internet, ma soprattutto
sulla vita arcaica dei montanari, sull’alpeggio, sull’alpinismo e su molti animali
che frequentavano l’altipiano; mi raccontò dei picchi muraioli, delle
coturnici, delle marmotte, dei camosci e degli stambecchi, delle volpi, dei
fagiani di monte, dei cuculi, del gallo cedrone, delle pernici
bianche, dei corvi imperiali, dei falchi, delle aquile, dei lupi. Mi raccontò
anche delle praterie alpine, delle genziane, delle campanule, della peverina
dei ghiaioni, delle orchidee dolomitiche e di tantissimi altri fiori e piante
medicinali. Dormivo bene, mangiavo bene, lavoravo bene in quel luogo immerso
tra le nuvole ghiacciate di un cielo invernale purissimo ed inebriante. Ritrovai
stimoli ed un piacere nuovo nel disegnare, mi sentivo libero, tranquillo e più
sicuro. Si lavorava dall’alba al tramonto, subito dopo cena si faceva un po’
di "filò", e poi a letto. Mi sembrava di rinascere e di ricominciare.
Anzi, volevo ricominciare! Mi ero liberato e distaccato, potevo finalmente disegnare
coi miei progetti anche un mio futuro che da lì m’immaginavo rinnovato
e stimolante.
Ero incantato dal paesaggio intorno a me, dagli alberi, la neve, le rocce; tutto
mi invitava a continuare la mia piccola ricerca interiore di una semplice qualità
del costruire, e di una dignitosa e discreta coerenza di mestiere, di una mia
creatività più libera e potente. "La casa di Jaco"
mi possedeva caldamente, ed io possedevo lei, tanto da sentirmi come liberato,
spogliato di tutti gli orpelli, finalmente vicino ad un mio io, che ancora non
conoscevo. La natura intorno m’aiutava a sondare nella mia, e la casa di Jaco,
a dispetto di tanti discorsi, m’ispirava ottimismo e speranza per un futuro
migliore.