Ottobre 1999

Durante il viaggio di ritorno, come sempre avviene dopo un distacco, ripensavo a Jaco con rimpianto ma al contempo ero ansioso di arrivare a casa dai miei piccoli e da mia moglie. Eppure mi sentivo stranamente tranquillo, guidavo con inconsueta prudenza, senza accendere la radio e senza fumar sigarette. Mi sentivo come riempito da una gioia tutta nuova, sconosciuta fino allora. Credo fossero i benefici dell’alta montagna e la felicità d’aver trovato un amico con cui condividere tante cose, che altrimenti restavan chiuse dentro di sé, come in una cassaforte. Con lui potevo aprire quella cassaforte e scoprire le mie ambizioni, i miei sogni, le mie idee. Potevo parlare dei miei interessi con quella libertà tutta speciale che si ha, quando si sa d’esser compresi. Non m’importava più di tanto di aver individuato qualche divergenza d’opinione, anzi, ne ero stimolato; solo che, ripensando a tanti discorsi, non riuscivo a togliermi dalla testa qualche dubbio e qualche preoccupazione sulle sue condizioni mentali. "Eppure", pensavo, "quando alla fine mi ha elencato tutte quelle cose da fare, pareva perfettamente lucido e sereno, sicuro di sé e motivato."
Sarà stato per la mia consueta inclinazione ad esagerare drammaticamente le cose, ma non riuscivo proprio a vedere con ottimismo il suo futuro. Mi preoccupavo per lui e con un po’ d’apprensione cercavo di immaginare i suoi sentimenti nell’attesa dell’inverno. Mi auguravo non avesse cedimenti di sorta e mi ripromettevo, scendendo tra un tornante e l’altro, di scrivergli spesso, di cercare di stargli vicino.
Arrivai a casa appena in tempo per salutare i bimbi, prima della nanna. Mia moglie, contenta di vedermi una volta tanto di buon umore, cercò di farsi raccontare qualcosa, ma non trovai le parole per descrivere come avrei voluto la casa, il pascolo, il quadro; ma soprattutto non trovai il modo di raccontarle di Jaco. Tante erano le cose da riordinare. Dovevo riorganizzare le idee, desideravo memorizzare il più possibile, come per mettere via in un cassetto dentro di me tante cose belle che avevo imparato e vissuto. Era come se volessi preservare quell’esperienza dalle probabili profanazioni provocate dall’inevitabile incomprensione degli altri. Ero sicuro non fosse il caso di mia moglie, eppure un certo pudore nel raccontarle di Jaco trattenne entro limiti un po’ vaghi e superflui i miei ricordi. Sicuramente con gli altri, sarei stato del tutto riservato e superficiale; ma a casa, invece, avrei voluto essere un po’ più esplicito. Comunque, pur divagando, riuscii quantomeno a trasmettere il mio pieno entusiasmo ed anche le mie preoccupazioni per il futuro di Jaco.

L’indomani mattina, il rientro al lavoro, si dimostrò più faticoso del solito. Trovai l’agenda piena di appuntamenti, molte carte da firmare, l’assistente personale col muso, alcuni problemi da risolvere, molte telefonate, qualche decisione da prendere velocemente ed anche un bel po’ di corrispondenza da inoltrare e da leggere. Avrei desiderato un po’ di tranquillità ed invece
Mi sentivo così pieno di alti propositi , che le incombenze della quotidianità parevano trasformarsi in ragnatele e trincee per la realizzazione di quei propositi. Così mi sentivo anche imprigionato nel lavoro stesso, prima che dal traffico e dall’automobile, dal telefono, dalle carte e dalle mille cosette da fare. Mi mancava l’entusiasmo come se avessi lasciato qualcosa a casa di Jaco. Mi era già successo, magari di ritorno da qualche bella navigazione, per cui mi auguravo finisse presto quel senso di estraneazione e di fastidio per la ripetitività degli impegni, che in quel momento vivevo come ossessiva e violenta.
La vita, pian piano, con le sue gioie e i suoi dolori, riprese il sopravvento. Tornai velocemente, come sempre, coi piedi per terra. Certo non avevo ancora tanta voglia di affrontare subito la "ferocia dei nordestini" come diceva Jaco , per cui cercavo di impegnarmi in cose più piacevoli ed interessanti.
Mi dedicai subito a scrivere un pezzo per una rivista, guarda caso sulle relazioni tra gli assetti territoriali e la telematica - in occasione dello SMAU - che intitolai "In difesa della città". M’accorsi, scrivendo, di sentirmi un po’ più forte e più libero nell’esprimere i miei pensieri e nel prendere le distanze da certa urbanistica, come se l’esperienza appena vissuta mi sorreggesse e mi spronasse ad essere più chiaro ed incisivo. Telefonai anche al mio professore di laurea, che, sono sicuro, fu contento di sentirmi e gentilmente mi concesse un suo pezzo inedito come opinione da aggiungere in conclusione al mio articolo. Felice ed onorato di tanta grazia ricevuta inviai subito il pezzo a Milano. Poi, lo mandai, completo dell’opinione del professore, all’indirizzo di posta elettronica di Jaco.

Caro Jaco,
Ti mando il mio pezzo "in difesa della città", al quale ti allego una stimolante opinione di Michele Sernini, che vedrai, non è molto discorde da alcuni ragionamenti che abbiamo fatto insieme. Mi piacerebbe sapere la tua opinione in proposito.
Tuo
Claudio

P.S. Il viaggio di ritorno è stato perfetto, il parroco felice di avere tue notizie, il rientro al lavoro un po’ meno.


Attesi con ansia qualche giorno prima di ricevere la risposta.

Parco naturale del Paneveggio

Altipiano di Jaco

Carissimo Claudio,
per prima cosa, scusami del ritardo con cui ti rispondo; ma, come sai, i tempi qui, sono diversi dai vostri, giù. Ho notato con piacere che il mio amico don Chisciotte, pur parlando in difesa della città, si è preso qualche libertà nel giudicare le politiche urbane degli ultimi anni. Bravo, ma ricordati che lì non sei sull’altipiano, e qualcuno potrebbe aversene a male! Sul bel pezzo di Sernini ti scriverò la prossima volta, perché devo ragionare ancora su qualche cosa.
La raccolta della legna procede spedita; ed anche il quadro; intanto sto già preparando i fondi per il prossimo. Il tempo è variabile, non fa freddo, tutto va bene.
Ti abbraccio
Jaco

Qualche sera dopo, a casa, trovai il tempo di sedermi davanti al computer; così entrai nel sito di Jaco.
Non c’era una vera e propria home page, bensì una specie di portale d’accesso; molto più di un indice. Già leggendo la prima pagina, si capiva la struttura del sito: una specie di circuito variamente incrociato metteva in relazione tra loro tutta una serie di piccoli universi. Il collegamento tra i vari argomenti poteva seguire un percorso basato su una semplice logica induttiva, oppure poteva avvenire attraverso scorciatoie per accostamenti disciplinari, oppure ancora da ciascun universo si poteva saltare su tutti gli altri secondo una logica più personale. Il sito manifestava subito e chiaramente il suo carattere di continua mutabilità, senza che fosse necessario inserire il solito "in progress"; pareva sospeso come nell’aria; per nulla graficizzato risultava comunque bello a vedersi e molto piacevole da consultare. Leggero come una piuma e quindi veloce, dichiarava nell’immediatezza il suo carattere di interattività. Incuriosito, provai a cercarlo attraverso qualche motore di ricerca: trovai pagine e pagine dappertutto.Capivo che Jaco, parlando della sua comunità virtuale, non esagerava affatto. Al contrario, direi. Quel sito, citato e richiamato da innumerevoli altri siti, si capiva subito, era un sito importante nel suo genere. Se solo Jaco avesse voluto, sono sicuro che non avrebbe incontrato difficoltà alcuna nell’inserire a pagamento banner di qualsiasi genere. Ma proseguendo nella navigazione, capivo che la differenza stava proprio lì: nella filosofia del baratto. Molti e da tutto il mondo scambiavano informazioni con questo personaggio ignoto; che a guardarlo in rete, poteva apparire come un gruppo di persone o un’intera redazione. Io sapevo e conoscevo chi costruiva quella ragnatela, ma chi ci finiva dentro poteva aspettarsi, e a ben donde, un qualcosa di diverso: come ad esempio un’associazione culturale, o un gruppo di intellettuali o una società di pensatori, o una banda di hakker. Non assomigliava ad una rivista, né ad una raccolta di saggi, né tanto meno ad una banca dati. Non avevo mai visto qualcosa di simile, date le mie poche frequentazioni nella rete. Passai ore sul computer quella sera, ed altre sere ancora: volevo capirci qualcosa di più e così mi sembrava di scoprire qualcosa di nuovo anche di Jaco. Non m’intrufolai mai se non da spettatore e senza interagire; vedevo spesso inserimenti in tempo reale di dati ed informazioni. Fantastico il capitolo dei proverbi: se ne potevano trovare di tutti i tipi, da diverse provenienze, in lingue diverse; suddiviso in base ad un indice programmatico, mi accorgevo che, con i continui inserimenti, stava diventando una specie di dizionario o di enciclopedia da cui poter attingere con estrema facilità. Mi pareva che alcuni provassero ad inventare una frase nella speranza di farla diventare proverbiale, perché spesso mancavano le fonti, le date, la provenienza ed altre specifiche informazioni che invece su altri erano ben descritte. Un gran numero di link per accedere ad altri siti con logiche del tutto incomprensibili, almeno all’apparenza, portava il navigatore a spaziare tra siti di storia, di filosofia e di antropologia. Trovai molto interessante la sezione intitolata "architetture poco conosciute indimenticabili", dove non senza stupore, trovai due luoghi che conoscevo: capo Espichèl in Portogallo, magico santuario sull’oceano che avevo visitato proprio l’anno prima ed il giardino romantico ex Giacomin di Jappelli con la sua meravigliosa torre ottagona. Poi c’era un’opera di Hassan Fathy in Egitto ed un’altra di autore sconosciuto in Mauritania, una magnifica casa a corte in un alto dosso di un’isola dell’Egeo ed alcuni interessanti edifici di architetti europei. Impressionante o molto divertente la sezione successiva: una irriverente raccolta di ‘opere mostruose’ firmate dai grandi architetti delle riviste patinate. Incredibile la quantità di segnalazioni presenti. In questo modo credo che Jaco trovasse spunti per rigenerare il suo pessimismo ma anche si divertisse nel sondare le oscillazioni del gusto, le differenze di approccio dei fruitori e, in qualche caso purtroppo, otteneva segnalazioni di opere di architetti davvero famosi, opere dalle ardite forme spettacolari, vanitose, autoreferenziali; molte tra queste con indicazioni precise bibliografiche, quindi già pubblicate su riviste patinate. Si capiva che la maggior parte dei delatori erano architetti, magari anche invidiosi, ma tra loro molti indicavano le opere mostruose accompagnando la segnalazione con nome e cognome ed anche con qualche annotazione critica. Jaco aveva pensato un sistema a punteggio, per cui le sue decisioni di cancellare qualcosa, venivano spesso supportate dal numero di stelline che i visitatori indicavano accanto al nome dello sfortunato progettista. Più erano le stelline, più il malcapitato stava in classifica. In fondo si trattava di un gioco per lui; molti però lo prendevano sul serio, e, sono sicuro di quanto seriamente lo prendessero le vittime stesse del gioco. Nessuno mai in una rivista avrebbe osato criticare un’opera di Foster, di Gregotti, di Calatrava, di Aymonino, di Portoghesi e di tantissimi altri che lì si ritrovavano in buona compagnia; chi con tantissime, chi con poche stelline. Le segnalazioni dovevano pervenire ad un certo indirizzo di posta elettronica, liberamente accompagnate da annotazioni ed immagini salvate in un certo formato digitale, come se una commissione dovesse vagliarle. Interessantissime le immagini ed il modo di fotografare l’architettura, così diverso da quello dei bravissimi fotografi delle riviste. Sempre presente l’intorno e quasi sempre presente la gente e la strada, con le auto, i cartelli, le insegne. "In fondo è così che si vede l’architettura", pensavo, sfogliando incredulo le pagine del computer. Qualcuno si era perfino preso la briga di scannerizzare le foto di un edificio da qualche volume monografico o da qualche rivista, per poi rifotografarlo ‘dal vero’, magari qualche tempo dopo; così da rendere evidenti l’usura ed alcuni difetti, volutamente celati ad arte nella pubblicazione. Ne avevamo già parlato con Jaco degli effetti del tempo sull’architettura di oggi; ne trovavo lì parecchi esempi illuminanti. Ragionavo sul fatto che l’architettura dovrebbe sempre venir documentata anche dopo qualche anno dalla realizzazione, così che il tempo possa lasciare i suoi segni; dato che la durevolezza dev’essere, credo, per vocazione, una delle primarie istanze tra le tante di cui tener conto nel processo progettuale e realizzativo.
Pensavo che nell’organizzazione programmatica di un progetto, derivante dalla mediazione di una serie di richieste rivolte da una serie di soggetti diversi, l’artefice per usare una parola cara a Jaco deve trovare una via nella giungla di desideri dei fruitori e dei vincoli normativi, per costruire infine e finalmente una sua architettura; una forma architettonica capace di garantire almeno una buona rispondenza alle funzioni, almeno una buona durevolezza, almeno un’estetica dignitosa, almeno un rispetto dei luoghi e della specificità dell’incarico. Non è necessario ricercare sempre l’invenzione spettacolare di una forma indimenticabile, chè quello, se si è veramente molto fortunati, potrà forse a qualcuno capitare una volta in una vita intera di progetti; bensì rinunciare a quell’ambizione per ricercare con più tranquillità un po’ di rigore ed un po’ di semplice ma buona ordinarietà . Questo dovrebbero insegnare i nostri docenti alle scuole di architettura, pensavo, navigando tra le pagine sconvolgenti del sito di Jaco. Che fare, allora? Come vivere?
Jaco, con la sua scelta di vita stava provando a suo modo una strada. Pensavo e ripensavo alle cataste di legna, ed ai lavori "fatti bene"; al suo mettere in pratica uno stile di vita antico, alla sua ricerca antropologica. Pensavo che il suo sconfinato individualismo, la solitudine cercata ed il suo cinico nichilismo, venissero stemperati dal contatto in rete con il mondo degli altri. Ma il sollievo non poteva che essere marginale o temporaneo, freddo ed impersonale.
Che fare del proprio lavoro ? come vivere allora ?

Di lì a pochi giorni, mi ritrovai in ospedale per un piccolo intervento già programmato durante l’estate: colecistectomia per via laparoscopica in anestesia totale.
Qualche giorno in ospedale ed una breve convalescenza a casa mi allontanarono nuovamente dal lavoro, contribuendo ad accentuare la crisi di identità in cui ero caduto in quei mesi.
Il lavoro andava bene, in fondo. La famiglia anche; ma che ragioni avevo per sentirmi così frustato e svogliato, così demotivato ed insoddisfatto ? Il mio incontro con Jaco, in realtà, non aveva certo contribuito a migliorare le cose; anzi al contrario, tutti quei discorsi, tutti quei ragionamenti innescarono un processo autocritico come fosse un bilancio che ai miei occhi risultava abbondantemente in rosso.
Le condizioni di salute non mi aiutavano molto, né la dieta, né un certo calo nei lavori. Soffrivo di un’astenia preoccupante ed anche un po’ ridicola; ma non c’era nulla da fare: mi sentivo invischiato in un vuoto, in un pozzo nero.
Avevo perso entusiasmo; così io, che tanto mi preoccupavo per le condizioni psichiche di Jaco, stavo davvero cadendo in una depressione subdola ed infìda.
Ci voleva una scossa, aspettavo cadesse dall’alto qualcosa di nuovo e così il tempo passava ed il vuoto s’ingrandiva intorno a me, tanto da farmi sentire lontano da tutto e da tutti. Cosa mi stava succedendo ? Avevo finalmente costruito una famiglia ed un lavoro, ero riuscito a costruire un certo prestigio intorno al mio nome, tanto da non soffrire più l’incombente confronto con il mio povero papà; scomparso troppo presto. Anzi sentivo di aver dato anche io un buon contributo al nome del nostro studio, ormai dopo diciotto anni dalla sua morte.
I miei figli meravigliosi riempivano la casa di una chiassosa gioia infantile.
Eppure non riuscivo a ritrovar stimoli nel lavoro e nella quotidianità familiare, mi sentivo pateticamente svalutato ed ancor più pateticamente sottoutilizzato e impotente. Le occasioni ridotte al lumicino per fare qualche buon progetto non mi bastavano più, stufo com’ero di far appartamenti e architetture d’interni per committenti troppo spesso inclini all’archetto ed alla boiserie invece che alla mia architettura di spazio e di luce.
Mi sentivo isolato in un mare sporco. E quel che è peggio, mi sentivo così triste, da non riuscire più a nascondere il mio malessere.
Che fare allora ?
Improvvisamente trovai un po’ di forza e decisi d’istinto di pianificare una mia nuova visita sull’altipiano di Jaco.