Primi di Ottobre 1999

Giovedì 30 settembre, dopo aver cenato a casa, con l’aiuto di mia moglie, che come al solito si comportava in modo accondiscendente, preparai lo zaino e mi misi al volante.
La mezzanotte era già passata da un po’, quando mi rannicchiai esausto sotto il piumino di una pensione al passo Rolle. Chiesi di essere svegliato alle 6.00. Il mattino seguente, la doccia abbondante e calda mi riportò subito tra i vivi
Alle 6.30 ripresi il volante e velocemente raggiunsi la Val Veneggia, dove, all’ingresso del parco parcheggiai l’auto.
Zaino in spalla, pedule invernali, ghette, guanti e via !
Una spruzzata di neve aveva sbiancato le cime, il tempo era buono, l’aria fredda, lo stomaco acido, il respiro affannato, la mente lucida.
Arrivai senza interruzioni, a passo costante fino al dosso sul confine dell’altipiano di Giacomo. Lì mi tolsi lo zaino dalle spalle, estrassi il binocolo, e scrutai tutto intorno a monte e a valle; guardai il fumo uscire dal tetto della casa, lì sotto; mi soffermai a cercare qualche cerbiatto o qualche camoscio sui costoni alla mia destra ma senza fortuna.
Come un fesso fumai una sigaretta aspirando a pieni polmoni. Riposi il mozzicone in tasca dei pantaloni e mi avviai lentamente.
Giacomo mi venne incontro a circa duecento metri da casa, in camicia di canapa grezza, quasi non sentisse l’aria gelida e il vento che scendeva fresco dai monti.
Poggiai a terra lo zaino per salutarlo.
Un breve abbraccio, lui si mise in spalla il mio carico ed entrammo in attrezzeria. Lì ci togliemmo le scarpe. Mi chiese di svuotare lo zaino ed entrò in casa in maglietta dopo aver appeso la camicia. Tirai fuori il materiale, appesi sui ganci liberi il giubbo, il pile, il maglione, un sacchetto di cotone con la biancheria, lasciai nello zaino tutte le mie cianfrusaglie, ed entrai nel tepore profumato di pane.
"Questi sono i tre compact; ecco il cavo d’acciaio con i tenditori, la scatoletta dei fusibili, la china, l’integratore. Guarda se i pennini ti piacciono. Ah, ecco il cibo liofilizzato. Ti ho preso anche dell’orzo, del farro, delle lenticchie e qualcosaltro di disidratato in un banchetto in piazza dove vado ad integrare la cambusa per la barca. Si mantiene per mesi ed è ottimo."
"Grazie, tutto perfetto"
"Ma aspetta, la testina del computer dov’è ?" ero sicuro di averla presa. La trovai subito nella tasca esterna dello zaino.
"Eccola, per fortuna non l’ho dimenticata!"
"Ti sono molto grato di tutto. Quest’inverno starò qui e per almeno quattro mesi non potrò scendere. Dicono che sarà un inverno rigido. Tieni, bevi il latte e mangia qualcosa."
Il pane era tiepido, di una bontà unica; il miele profumato, il latte saporito e bollente.
"Vuoi un uovo?"
"Volentieri, grazie "
Tirò giù dall’alare qualche brace e la infilò con un bastoncino sotto la piastra della griglia. Ci ruppe sopra due uova. Le divorammo avidamente.
"Bene. Ti sei rifocillato? Come ti senti? Io devo fare un po’ di legna. Vuoi venire con me o preferisci stare qui?"
"Vengo volentieri."
"Allora andiamo".
Ci vestimmo in attrezzeria ed uscimmo all’aria sotto un sole accecante. Lui entrò in stalla, diede un’occhiata intorno, liberò gli animali ed uscì con il mulo.
"Si chiama Picchio, perché quando sente il tichettare sui tronchi si ferma col muso in su e non vuole più muoversi."
Ci inoltrammo di un centinaio di metri tra gli alberi.
"Ecco, oggi tocca a lui" guardando un bell’esemplare di abete di mezza taglia.
"Vedi qui, è il segno che mi hanno lasciato le guardie forestali su alcuni tronchi per il disboscamento."
Tirò fuori l’accetta grande e con pochi colpi incise una grossa ferita sul tronco. Legò un cordino all’attaccatura di un ramo basso e mi chiese di tenderlo in una certa direzione.
"Ecco adesso legalo in tensione a quell’albero e vieni qui dietro a me"
Ancora qualche colpo d’ascia, e l’albero cadde con scrocchi sinistri un po’ più a valle di quanto Giacomo sperasse.
"Uhm non proprio quello che volevo, ma va bene lo stesso"
Ancora un’ora di lavoro faticoso per eliminare un po’ di rami dal tronco, poi, scelto il più grosso lo tagliammo a pezzi e lo caricammo sul mulo.
Tornammo giù con calma, lui scaricò la legna a terra ed io, esausto, mi distesi sull’erba. In una mezz’ora, a colpi sicuri, come niente fosse, preparò tutta la legna della mattinata in ceppi della stessa misura ed in seguito salì nel soppalco dell’ingresso Nord con una scala a pioli e mi chiese di passargli a braccia i pezzi di legna. Quando furono tutti su, mi chiese di andare a vedere.
"Rigoni Stern in suo libro dice più o meno che una catasta di legna ben fatta è bella come un’opera d’arte. Io ho la mania di accatastare bene la legna e lo faccio con la stessa cura che metterei nel costruire un muro. Ricordo di aver letto una magnifica lezione di Calabi. Tu dovresti conoscere la sua opera perché ha lavorato molto a Padova. Diceva più o meno questo: se è vero che il mattone è fatto così per le misure della mano del muratore, allora è altrettanto vero che un bel muro di mattoni, che fare muro è anche una testimonianza umana. Allora quando vedi una bella catasta di legna, ricorda che quella è opera di un uomo che si preoccupa di scegliere pezzo per pezzo e di accostare ciascun pezzo con l’altro; che si preoccupa di metterla in bolla, di lasciare qualche cunicolo per l’areazione; che sceglie di posizionarla in modo tale da realizzarla bene e da potervi accedere comodamente in pieno inverno. Una bella catasta di legna è un lavoro ben fatto, ha una sua bellezza intrinseca, riconoscibile a tutti."
Parlando, con molta cura e molta calma, incucciato come un indiano, continuava a mettere la legna al suo posto.
"Conosco l’opera di Calabi, e mi piace moltissimo. Ho da poco avuto l’opportunità di restaurare un appartamento di un suo magnifico edificio, e così ho potuto riscontrare da vicino la qualità del suo lavoro ed alcune sue scelte innovative e coraggiose."
"Mi fa piacere che tu lo conosca e lo apprezzi. Anche a me piaceva."
Finito il lavoro scendemmo ed entrammo a casa. Ravvivammo il fuoco per il pranzo. Sulla cucina economica una pentola con il suo coperchio sembrava pronta per essere scaldata. Mi domandavo cosa ci fosse dentro e quando l’avesse messa lì dato che prima non l’avevo notata.
Dentro c’era una minestra di orzo e patate, profumata con un po’ di rosmarino ed un pezzettino di speck. In una ciotola sul tavolo di legno, già pronti per la griglia due piccoli pezzi di carne; sul tagliere la polenta.
Il quadro sul cavalletto era quasi finito. Le sovrapposizioni di materiali cartacei semitrasparenti in alcune parti della tela, oltre a produrre un effetto di bassorilievo schiacciato materico, introducevano delle profondità simili ad uno schermo elettronico. I toni dei colori dal verde pisello al blù elettrico e certi tocchi di colore striato portavano dentro al collage una trasposizione della natura artefatta e trasformata in composizione astratta. Bellissimo. Un quadro importante, forte e potente. A fianco alcuni bozzetti a matita e pastelli di altre composizioni astratte ed alcune immagini scannerizzate da vecchie foto in bianco e nero ed altre da fotografie di alberi.
Cucinata la carne, chiacchierando tranquillamente, mangiammo di gusto ma senza appesantirci, dato che lui serviva porzioni veramente piccole. La sua teoria alimentare era semplice: mangiare poco e spesso e variare gli alimenti. La carne era un’eccezione, molta verdura, molti legumi, molta frutta, pane, miele, riso, pasta, polenta. Tutto genuino e di buonissima qualità. Mangiava veramente poco: qualche cucchiaio di minestra ed un boccone di pane gli erano sufficienti.
I nostri ragionamenti durante il pranzo, sani e stimolanti, ci avvicinarono ancora di più; mi sentivo compreso, rispettato, ascoltato come solo raramente accade durante una discussione, sia pur amichevole. E viceversa mi era spontaneo ascoltare lui scoprendo pian piano i suoi enigmi, i dubbi, i vasti orizzonti spesso sognanti in cui spaziava la sua mente e la sua creatività.
Per Jaco l’arte è un universo dai contorni sfumati dove è impossibile tracciare dei confini definitori tra le varie discipline:
"L’atto creativo è un’attività spirituale che si trasforma e si plasma attraverso un fare fisico. E manuale"
Così parlava degli artigiani come fossero dei plasmatori di materia
"Gli artigiani lavorano con la materia, con la mente e con il cuore esattamente come il poeta con le parolePensa solo a quanta perizia per la preparazione del legno, fin dalla fonte. Come tagliarlo, come sezionarlo, come e dove stagionarlo. Bisogna sapere di tutto: meteorologia, microclima, fisica, astronomia, botanica, chimica. L’importante è fare le cose bene. Non credere che tutti gli artigiani siano bravi solo perché sanno saldare il ferro o tagliare il legno. O cuocere la terra alla giusta temperatura. Molti di loro si arricchiscono solo dal punto di vista economico sulle spalle di clienti maltrattati e traditi. Molti corrono su macchinoni lussuosi trasportando solo ignoranza ed arroganza. Ma se uno fa le cose per bene, allora il suo spirito si eleva; magari non sa tenere una conferenza ma puo’ tramandare alle nuove generazioni un saper fare, un’arte, una cultura preziosa come l’oro
Tu non sai quante volte da quando sono qui, mi sia capitato di trovare una raffinata sensibilità, gentilezza d’animo, una meravigliosa poetica in persone apparentemente rozze ed ineducate ai canoni falsi della interazione sociale degradante di questa civiltà al capolinea.
Se tutto ruota intorno alla cultura del profitto, perfino l’arte decodifica la sua potenza spirituale in una potenza più volgare della pura merce, trasformandosi essa stessa anzitempo in rovina, in un rifiuto da consumare in fretta. Le grandi mostre sono degli eventi massmediologici, il mostrismo fa sì che il pubblico vada in coda a visitare, si fa per dire, la mostra, divenendo egli stesso il protagonista dell’evento e trasformando le opere in comparse inutili
Ricordo un magnifico allestimento di quel maestro che è Castiglioni che introdusse come quinte e separè delle immagini ingrandite di uomini e donne senza caviglie, come appesi, cosicchè il pubblico passando prestava alle immagini i propri piedi, le scarpe, i tacchi, le calze e simbolicamente, dando vita all’allestimento, ne diveniva parte vivente."
"D’altro canto il business della cultura fa si che vengano anche organizzate delle mostre bellissime "
"Sì, sì, le mostre possono anche essere straordinarie ma è il pubblico, gran parte del pubblico che le frequenta in modo improprio. Il rapporto tra astante ed opera si trasforma in un passaggio superficiale e artefatto, governato dal flusso mondano del popolo che crede di vedere, che vuole toccare e respirare l’aria della cultura e dell’arte ma che invece annusa solo gli odori dei profumi di chi da dietro ti spinge addosso a quelli davanti.
Certo è meglio che niente, ma vedi quanto orrore, quanta bruttezza intorno a noi; guarda le devastazioni diffuse del territorio, delle conurbazioni metropolitane lungo gli assi di trasporto ed allora forse capirai il mio pessimismo.
Le città che dovrebbero essere e che storicamente sono sempre state il luogo privilegiato dell’interazione sociale anche non precostituita e casuale, si stanno trasformando in agglomerati di cemento dove invece l’interazione sociale avviene in luoghi e ghetti deputati a tale scopo come i centri commerciali, le discoteche, i mottagrill e per quelli più chic magari proprio alle mostre.
I centri storici diventano dei salottini da tenere puliti per quei pochi che ci vivono e che sono così offuscati dal loro status sociale ed economico che, immemori, non capiscono che i loro salotti valgono tanto solo perché i periferici li invadono e li riempiono di vita e di contraddizioni.
Ma il discorso sulla città è lungo, così complesso che richiederebbe una vita di studio"
"Prima di proseguire sulla città vorrei però dirti, tornando all’arte, che essa si è dematerializzata oggi perché mette in circolazione idee più che opere. Idee, segni, allusioni, concetti. Tutta l’arte contemporanea in fondo è concettuale così come nella merce non è più il suo valore reale che conta ma lo stereotipo del valore.
L’arte così sta perdendo sempre di più la sua autonomia come attività specifica. Segue una direzione o verso la tecnica pura o verso l’industria o verso certo artigianato ed è ormai omologata da un’identità mondiale di ispirazione, basta guardare la Biennale di quest’anno. Viva o morta che sia, l’arte in quanto arte si sta occultando tra oggetti puramente decorativi e feticismo postindustriale. E’ come se ci fosse una stasi, o un’inerzia che ruota sempre intorno a sé stessa in una drammatica proliferazione di opere e di eventi dove nulla è escluso, tanto da provocare una profonda indifferenza
E’ la sparizione dell’arte come diceva Baudrillard."
"E la città allora?"
"Il discorso è difficile. Io credo che la città ed il suo sviluppo sia il luogo primario della civiltà; con la sua millenaria stratificazione complessa di cultura, di modi di vivere, di civiltà diverse, di socialità diverse, la città resta il luogo privilegiato dell’interazione sociale come dicevi prima, della sovrapposizione del pensiero e delle idee, dell’incrocio dei flussi culturali ed economici. Certo lo sfacelo del territorio ed il fallimento di certa urbanistica ci hanno portato a risultati pericolosi ed allucinanti, sia nelle metropoli che nelle piccole e medie città della cosiddetta provincia. L'idea della zonizzazione, aree del terziario, aree industriali, aree residenziali ha provocato in molti casi un’eccessiva divisione specializzata dei luoghi, diminuendo sensibilmente l’integrazione delle funzioni che in fondo è quanto di più straordinario la città abbia espresso storicamente.
I ghetti della funzione predeterminata sono un risultato su cui meditare. In fondo dove si vive meglio? Io credo in quei luoghi dove le funzioni si sovrappongono, si mischiano, si integrano fra loro in una complessa trasformazione quotidiana. Se si continua ciecamente a seguire la strada della conservazione tout court, della delocalizzazione delle funzioni, vedi i grandi centri commerciali, le aree produttive, i luoghi del divertimento, lo sviluppo produrrà sempre più la dissoluzione della città in un insieme di flussi diffusi sul territorio che ogni tanto si incrociano e si illuminano con le insegne delle grandi multinazionali della ristorazione, della commercializzazione e così via
Come se il territorio visto dall’alto diventasse uno schema elettrico dove la gente viene convogliata risultando così sempre più controllabile e mappabile.
L’architettura con l’arte muta verso una progressiva perdita di identità e gli architetti sempre più diventano dei servi incatenati e convogliati anch’essi nella nebbia dell’annullamento.
Poi ci sono i piani regolatori, i regolamenti, la burocrazia elefantiaca che diventano strumenti restrittivi Le periferie derelitte testimoniano drammaticamente che tutte queste leggi hanno fallito."

Sapevamo entrambi di avere altri argomenti da approfondire, e che in fondo ci stavamo solo preparando ad affrontare un po’ meno vagamente i temi che più ci interessavano, e non solo d’arte e d’architettura volevamo parlare. Ma c’erano anche cose da fare, ed anche da godersi la montagna, l’aria, i colori, ed i primi segni dell’autunno.
Così, ripassando per l’attrezzeria e rimesse ai piedi le pedule, tornammo con una lunga sega a mano e con Picchio dal tronco di abete abbattuto il mattino. Ne segammo quattro pezzi di circa un metro ciascuno e li rotolammo giù fino alla stalla, aiutati dal mulo.
Intanto Rube se ne stava a cuccia tranquillo ma vigile, a godersi il sole controllando le bestie.
Jaco a colpi sicuri ridusse i tronchi in un bel mucchio di ceppi della giusta misura per la stufa in pietra delle bestie. Provai anch’io ma con scarso successo; poi diedi una mano ad accatastarli in stalla sopra il soppalco già stracarico di fieno e di mangime.
"Allora gli animali stanno qui con te, d’inverno?"
"Alcuni sì, altri vanno giù col malgaro per diminuire il rischio."
"Quindi quest’inverno dovrai pensare a scaldare anche loro?"
"Loro mi aiutano a sopravvivere in modo dignitoso."
"Capisco. Può capitare che muoiano di freddo?"
"Mi è capitato il primo anno, ma potrebbe ancora capitare anche se ho imparato molto da quando sono qui e le mie bestie sono selezionate per questo clima di montagna.
In più si sono bene ambientate e la stufa di pietra che ho costruito stempera bene la stalla usando poca legna, l’importante è non farla mai raffreddare troppo."
Finito il lavoro in stalla, Jaco mi fece guardare le piante medicinali nella serretta, costruita proprio sul muro a ridosso della stufa così da sfruttare quel poco di calore delle pietre
"C’è anche un tubo di collegamento tra la serra e la base della stufa dove ho messo una piccola piastra di ghisa. Il calore si trasmette molto bene e così, a parte i tre o quattro mesi più rigidi, riesco a non farla andare sotto zero"
Pesavo tra me e me alla quantità di cose da fare e da non dimenticare, ma capivo quanto l’uomo che avevo di fronte fosse altamente dotato di intelligenza e di forza interiore. Di una voglia di vivere bene tutta particolare, e di una insanabile curiosità tanto da trasformare tutte queste incombenze in gesti piacevoli d’una quotidianità in fondo più che accettabile. Pensavo alla sua forza d’animo osservando ora con attenzione l’organizzazione della sua vita, la semplice bellezza delle due costruzioni; l’ordine e la pulizia di tutto, dentro e fuori, e la eccezionale funzionalità: tutto pareva progettato, ma al contempo sedimentato in una secolare esperienza.
Mi pareva impossibile, eppure tutto era dotato di una particolare bellezza, molto difficile da descrivere perché fatta di un progetto d’insieme, di un paesaggio naturale straordinario e di tante piccole cose; ma soprattutto della rinuncia, della mancanza di tante altre cose. Nulla era lasciato al caso, ma tutto appariva antico, come fosse sempre esistito, come tramandato di padre in figlio, di generazione in generazione.
Invece la casa era stata costruita sulle macerie di una vecchia malghetta da pochissimo tempo.
"L’ho costruita io con le mie mani, aiutato da due giovani fratelli e dal loro anziano nonno e naturalmente dal mio Picchio e dai loro tre muli da lavoro. Quando abbiamo tirato su le capriate del tetto sono venuti il padre dei fratelli - figlio del nonno con un cognato e un’altra figlia. Abbiamo fatto un paio di trasporti con l’elicottero, ma tutto il materiale è preso qui intorno oppure è arrivato qui sulla schiena dei muli e sulle nostre spalle."
"Quanto ci avete messo?"
"Dal 2 aprile del 94 a fine ottobre per il grosso del lavoro. Poi siamo scesi per l’inverno. Mi sono trasferito qui a maggio del 95 e durante quella stagione ho finito i soppalchi, i camini, i muretti esterni, ho montato il bagno, ho realizzato le tubazioni, i serbatoi, l’impiantino a 12 volt. Comunque non ho ancora finito"
I muri di pietra recuperata poco distante da lì, parevano costruiti a secco, senza legante. Erano realizzati veramente bene, con grande maestria e senza difetti. Lo spessore di quasi un metro, garantiva solidità eccezionale e coibentazione pur in assenza di materiali isolanti. Le quattro finestrelle sul lato lungo, due a monte e due verso il pascolo, erano protette dallo spessore stesso del muro, da un oscuro a due ante in tavole doppie al naturale forse solo trattate ad olio e da una inferriatina in ferro. Il profondo davanzale serviva per molte cose, ma soprattutto, tra oscuro e serramento, si era subito dimostrato un buon posto per conservare i cibi a portata di mano, oppure per seccare le piante medicinali, o per riporre le vernici e la trementina e i vari materiali per la pittura. Sui due davanzali a valle, scavate direttamente sul muro, a ridosso delle inferriate due vaschette in rame sottili in tutta lunghezza per i fiori, così che genziane blù, colchici ed altri fiori ancora, parevano nascere direttamente dalla pietra come fossero su un costone tra i sassi. Un sottile tubetto di scarico portava l’acqua fuori dal muro in modo da non inumidirlo troppo.
Il tetto a due falde ripide, più lungo del corpo della casa verso nord e verso sud, sbordava di circa tre metri e mezzo per parte, formando così due portici soppalcati molto belli e molto utili.
Le due capriate di testa sostenute da due tronchi poggiati su grosse pietre, come dei plinti, sostenevano col tirante anche il doppio tavolato dei soppalchi utilizzati come deposito di fieno, mangimi e legna. Entrambi i portici erano pavimentati in pietra come del resto i due filtri d’ingresso. Quello a nord conteneva l’attrezzeria spogliatoio ed una stanzetta separata da una parete in mezzi tronchi che aveva la funzione di una specie di cabina armadio. In quello a sud trovava posto il grande piano da lavoro in legno ed un’altra stanzetta in mezzi tronchi con il bagno.
Entrambe le stanzette venivano scaldate dalle canne fumarie della stufa per l’armadio e della cucina economica per il bagno. Infatti nei muri di separazione tra la stanza centrale ed i due filtri d’ingresso c’erano due tagli che contenevano una lunga piastra in ghisa di schiena alle due stufe.
Sul soppalco sopra l’attrezzeria e l’armadio, accessibile dall’interno, Jaco depositava sacchi vari e materiali da conservare ma soprattutto legna a seccare; su quello sopra il bagno c’era il serbatoio dell’acqua in lamiera d’acciaio alto circa trenta centimetri come uno spessore sul solaio e sopra di esso altro materiale stivato. L’acqua da lì scendeva per caduta in bagno e nell’acquaio a fianco della cucina attraverso dei tubi esterni in acciaio inox. La cosa interessante era che il serbatoio, di circa due metri e mezzo per tre e mezzo per 30 cm. di altezza era diviso in sei parti in modo da poterne controllare il consumo. Ancora più straordinario il fatto che il secondo vano fosse addossato alla canna fumaria della stube al piano soffitta, ed il terzo alla canna della cucina, così Jaco riusciva ad avere al bisogno un’acqua tiepida per la doccia ed in qualche caso addirittura calda. Soprattutto d’inverno quando accendere la stube diventava necessario.
Entrando in bagno trovai altre sorprese. Sulla sinistra lungo il muro interno una vasca bassa rivestita finemente in pietra lisciata; addossata alla piastra della canna fumaria serviva da vasca, da piatto doccia, e da lavatoio per la biancheria. Il tubo dell’acqua scendeva lungo la piastra di ghisa attraverso il taglio del muro per diminuire la dispersione.
Su di un piano di legno, come poggiato, ma in realtà incastrato, un lavamani in alluminio pareva un secchio tagliato a metà oppure un oggetto di un designer famoso. A fianco un water di vecchio tipo con la tavoletta in legno. Due tubi dal soffitto scendevano sopra ad entrambi per l’acqua. Il rasoio, la schiuma da barba, il pettine, lo spazzolino, il dentifricio stavano tutti in una bellissima scatola di legno che all’interno del coperchio conteneva lo specchio. Il coperchio aperto serviva da specchio, ma anche, con una mensoletta forata, da porta oggetti.
Un sapone di marsiglia ed una spugna erano appoggiati sul tavolaccio inclinato ai piedi della vasca per la biancheria.
"Lavo tutto col sapone di marsiglia, è l’unico detergente che uso quando raramente mi serve. Cerco per quanto possibile di sciacquare solo con acqua, qualche volta mi aiuto con dei semi e della carta o altri materiali ancora, che poi brucio sul camino. Cerco per quanto possibile di non produrre rifiuti inutili, e quindi il sapone c’è solo per i casi di assoluta necessità."
Sotto il grande tavolo da lavoro di fronte al bagno c’erano anche due vani chiusi. Ero curioso di saper cosa contenessero.
"In quello a sinistra ci sono le quattro batterie a 12 volt, in quello a destra c’è il mio generatorino di corrente 220 volt ad accensione manuale ed il raddrizzatore di carica. Le batterie vengono caricate anche da due piccoli pannelli solari pieghevoli e da un generatore eolico di tipo nautico che monto spesso qui fuori, quando scende aria dai monti. Oramai riesco ad usare quasi completamente energia pulita per le mie attrezzature elettroniche, per la radio ricetrasmittente, per il computer ed anche il telefonino. Tanto uso tutto così poco Qualche volta però devo fare qualche operazione con la corrente 220, come usare la sega circolare, ed allora in quell’occasione metto in carica tutto: le batterie del telefono e del computer portatile, il trapano, ovviamente le quattro batterie fisse, la stroboscopica, la radio. Se c’è un po’ di sole ogni tanto, ed un po’ di vento, riesco a non accendere il generatore per molto tempo."
"Per quanto?"
"Anche due mesi. Ma se ho bisogno di lavorare con il computer e la stampante allora un po’ meno. Quando accendo il generatore approfitto anche per fare tutte quelle operazioni con le macchine, scannerizzo, masterizzo, stampo il più possibile così poi ho lavoro pronto per un bel po’ di tempo."
"Usi praticamente lo stesso impianto che si usa nelle barche a vela, non stento a credere che tu riesca ad usare poco il generatore diesel, con quel magnifico modello di generatore eolico."
"Non sottovalutare i due pannelli fotovoltaici. Aiutano molto, anche con cielo velato, ma il segreto stà nelle batterie. Devono essere di eccellente qualità e non devono mai subire sbalzi troppo forti. Insomma bisogna cercare di non scaricarle mai troppo.
Adesso devo andare a recuperare le bestie."
"Vengo con te ?"
"Certo."
Qualche nuvola passava veloce davanti al sole, oramai pronto a cadere dietro ai monti. Il cielo terso trasudava i riflessi colorati di un tramonto quasi pronto.
"Questa sera ci sarà la rosandira sulle Pale. E’ quasi sicuro."
Rube, con calma e fermezza, diresse le bestie verso la stalla; Jaco con un forcone tirò giù un po’ di fieno e controllò i dosatori automatici di mangime per i polli, le caprette e le pecore.
Quando tutto fu al suo posto, una pacca a Picchio, un po’ di feste al cane e via, fuori a goderci il tramonto.
Avevo già visto da San Martino le pale colorate di rosa, non era uno spettacolo inaspettato, ma forse l’essermi un po’ ambientato, forse la serenità di una giornata così bella, di sicuro l’aiuto di Jaco nel guardare le cose da un punto di vista più naturale e nel lasciarsi alle spalle i ritmi di una vita troppo veloce ed accecante; forse per queste ragioni e per la bellezza del luogo in cui mi trovavo, quella rosandira sul Cimon della Pala mi lasciò senza fiato. Ma anche lui era rapito, e, come disciolto nel panorama, vagava con gli occhi lucidi verso chi sa quali sogni ed isole sconosciute.
Si vedeva che la sua ricerca non era finita ma che, comunque, quello che aveva intorno a sé e quello che aveva costruito lo riempivano di emozione e di gioia. Di una felicità misurata e pacata, dolce e sensata. Nulla di esagerato o patetico o drammatico; nulla di ideologico. Aveva ragione. Cominciavo a capire ciò che la prima volta aveva cercato di spiegarmi.
Tornati a casa, dopo aver salutato il cane ed aver chiuso i portoni d’ingresso sia nell’attrezzeria che nel laboratorio, ci dedicammo al focolare ed alla preparazione della cena.
Il camino centrale illuminava un poco tutta la stanza, poi si usava una lanterna ed in caso di necessità un paio di candele. Non ci parve assolutamente necessario usare l’impiantino a 12 volt, dato che passammo la sera a parlare.
A casa di Jaco si mangiava molto bene e molto poco: scaldammo qualche cucchiaio di minestra poggiando la pentola vicino al fuoco per mandar giù qualcosa di caldo. Poi un pezzo di pane, un pezzo di formaggio ed una pera. Un sorso del vino rosso di casa e per finire una tisana di erbe rilassante e digestiva. Mangiammo lentamente continuando a parlare ancora per un paio d’ore dopo il tramonto. Io ero stanco ma felice, sentivo che avrei fatto una bella dormita ma non volevo assolutamente interrompere la discussione. Avrei parlato ed ascoltato ancora per ore; ero esausto ma di una stanchezza appagante, di quelle che ti fanno sentire bene.
"Nel 900, in questo secolo sbagliato, abbiamo accumulato una serie sconfinata di errori e di orrori. Il dominio del profitto e delle regole mercantili ha invaso perfino la politica e la filosofia soprattutto negli ultimi anni. Questo è solo il primo risultato di un neocapitalismo esasperato dove le regole del mercato mettono radici ovunque perché altro non si vede all’orizzonte. I ragazzi crescono con ideali e miti sbagliati. L’arte è ormai un ricordo, perfino nei licei è relegata come ultima materia e l’architettura, la buona architettura di conseguenza scompare con la cultura. Oggi contano per molti cose troppo lontane dagli ideali di bellezza, di armonia, di invenzione, di innovazione che nutrono l’arte e l’architettura. E’ necessario che se ne accorgano al più presto, quelli che contano, quelli che detengono il potere, le Università, gli influenti. A me non sono care le teorie dei filosofi catastrofisti, credo cioè che il tempo ci sia ancora per cambiare rotta, ma in parte la catastrofe è già ampiamente in atto. Se pensi che i nostri politici reclutano i presidenti delle regioni o i sindaci o gli assessori oramai perfino tra le soubrette di orribili spettacolini televisivi o tra i quadri di aziendine di provincia o perfino tra i produttori di pubblicità o i consulenti finanziari allora ben capirai cos’è la politica oggi. Non che non abbia rispetto per tutti quei lavori ma uno che deve governare una regione o una provincia o una città utilizzando migliaia di miliardi, deve avere una visione alta del suo ruolo, dovrebbe attorniarsi più di studiosi che di manager o di consulenti per l’immagine. Mah, quello che mi sconcerta è la cecità di troppa gente. E’ la cultura del tubo catodico, è l’immagine superficiale, è il decadimento dell’uomo. Troppa gente stenta a capire. E qui non si tratta solo di Berlusconi e dei suoi adepti ma anche di quasi tutti gli altri. E’ sconcertante."
Non ero d’accordo completamente con quanto diceva e così la presi da lontano.
"Qualche volta penso ai miei sogni giovanili, alle discussioni che si facevano a tavola, penso a ciò che contava per noi. Penso che oggi sarei ridicolo ad insegnare ai miei figli quello che i miei hanno insegnato a me. Ci provo ogni tanto, ma mi assalgono dei dubbi. Penso: se vuoi bene ai tuoi figli devi aiutarli a sopravvivere nella giungla metropolitana e quindi dovresti anche insegnargli a competere, a combattere, a fare soldi. E poi penso: ma per insegnargli questo, devo insegnare cose brutte, devo necessariamente insegnare loro cose che ho sempre rifiutato, almeno dentro di me. E così nasce il conflitto. Per ora rimando il problema, cerco solo di proteggerli, di dare loro amore e comprensione, ma so che sto svicolando. Nella mia famiglia l’unico universo concepibile e conosciuto era quello artistico. A Venezia, intorno al tavolo da pranzo di mio nonno, mio padre ed i suoi fratelli parlavano solo d’arte e di architettura e le discussioni erano continue ed anche violente. L’unico obbiettivo era quello di farsi una vera cultura, di farsi artisti, di fare arte o architettura. L’unico mondo possibile. Ma cosa è servito tutto quello sforzo spirituale, dove li ha portati, dove ha portato noi figli e nipoti? Ho sofferto anche per molti anni, ma poi la vita mi ha assalito e piano piano mi sono costruito le mie barriere. Comincio ora, da poco a stare meglio, da quando cioè ho cominciato ad accettare la realtà per quello che è e a distaccarmene."
"Capisco dove vuoi arrivare."
Jaco con quella sua sensibilità così limpida aveva già interpretato la mia frase come una premessa e forse un avvicinamento a quanto mi avrebbe egli stesso suggerito di lì a poco: " le menti si inaridiscono, è un processo irreversibile, è una questione di sopravvivenza. Io ho fatto una scelta radicale. Me ne sono andato, ho rinunciato; ho eliminato il denaro e con esso ho allontanato da me molte delle ragioni di inaridimento e molti dei pericoli che sentiamo più dolorosi. Ma tu che hai famiglia, una moglie, dei figli, uno studio professionale, una posizione da difendere non puoi tagliare i ponti come ho fatto io."
"Rinuncio a molte cose anch’io. Rinuncio a far soldi sporcando il territorio, rinuncio a far parte di lobbies o potentati, rinuncio anche ad offerte allettanti per salvare un minimo di libertà e di dignità, con la speranza che un giorno cambino le cose"
"Ne sei proprio sicuro ? Ti ammiro molto per questi ideali che dici di avere, ma sei proprio sicuro di poter davvero rinunciare ? Non sei anche tu stritolato e sperduto, tanto da ritrovarti, privo di lucidità, a servire padroni pieni d’ignoranza e di volgarità, violenti e ciechi; ad esercitare una libera professione che ti rende schiavo tanto quanto quelli che rifiuti?"
" Non sono sicuro di niente. Ci provo; vivo come in un’isola dove i miei contatti con la società avvengono solo durante viaggi di andata e ritorno per approvvigionarmi di ciò che mi serve per sopravvivere."
"In fondo, allora, sei più isolato tu di me?"
"Forse per certi aspetti sono molto isolato anch’io; per i miei più intimi desideri e le mie ambizioni più segrete sì, mi sento molto solo."
"Vedi che sei partito da lontano ma arriviamo sempre allo stesso punto: è necessario trovare il modo di esprimere e di dare corpo fisico alle proprie ispirazioni. Bisogna sintetizzare, disinquinare se stessi per concentrarsi nell’atto creativo. Quello che una volta i critici chiamavano "l’afflato spirituale" deve diventare il centro della propria esistenza di artisti, e per fare questo vanno eliminati tutti i freni sociali che lo inibiscono. Ma non si tratta di avere servitori che ti liberino dalla quotidianità e collaboratori che ti sollevino dalle incombenze. Al contrario si tratta di ritrovare un afflato vitale, di ritrovare il piacere di fare le cose necessarie, di farle bene, con amore. Io ci sto provando e ti assicuro che solo qualche anno fa il pensiero di lavorare manualmente per scaldare la mia casa come abbiamo fatto oggi preparando la legna, sarebbe stato del tutto assurdo per me. Oggi invece ho ritrovato il tempo di fare queste cose perché queste sono le cose che deve fare un uomo; o ti sembra meglio stare imbottigliati nella tangenziale di Mestre e spaccarsi il fegato tra una telefonata e l’altra? Qualche anno fa in coda in autostrada col telefonino in mano, nell’altra vita, non avrei mai pensato di poter anche solo sfiorare una mucca o una pecora ed invece adesso tengo pulita la loro stalla e con il loro letame concimo l’orto. E’ tutto relativo. Non so se questa nuova vita faccia sì che la mia pittura sia buona pittura o se i miei quadri siano riconosciuti come tali. Come ti ho già detto non lo voglio neanche sapere. So però che oggi ho la voglia e il tempo di farli, di pensarli, di ragionarci su, e questo mi fa stare bene. Ho inventato una nuova qualità del mio tempo. Vado a letto la sera che ho dei lavori incompiuti da completare il giorno dopo
Come mai quando vai in vacanza in barca a vela stai bene? Perché il tuo tempo è un tempo naturale scandito dal sole che sorge e che tramonta, dal vento, dal mare, dalla fame, dal sonno, dall’amore. Dopo un po’ che ci stai ti diverti perfino a fare lavoretti tipo pulire la sentina o ingrassare il cesso! Vero?"
"Vero."
"Allora è inutile girare intorno al problema. E’ necessario rinunciare alla corsa al successo, al denaro, alla carriera, al potere. E’ necessario cambiare vita. Non c’è scampo per uno che ci soffre. Certo agli indifferenti non importa nulla, agli arroganti importa solo vincere, e sono la maggioranza e con loro non parlo mai di queste cose, ma con te so di poter parlare."
"Ti ringrazio di questo, ma ho molti dubbi. Intanto mi domando come potranno cambiare le cose sottraendosi al confronto, rinunciando come hai fatto tu alla partecipazione civile, ai processi di sviluppo, alle politiche di rinnovamento, alle possibili deviazioni di un cammino ormai predeterminato come da una strada ferrata. Come si può fare a disinnescare la spoletta se molti intellettuali se ne stanno rintanati chissà dove, trasformando spesso la loro poetica in un piagnisteo nostalgico e lamentoso o incatenando la loro arte come in incunaboli del 2000 introvabili e settari. La dematerializzazione dell’arte plastica in concetti astrusi la rende illeggibile, incomprensibile, tremendamente elitaria e confusionaria. Mi domando anche se alcuni indizi che vedo intorno a me siano davvero degli segni di rinnovamento o gli ultimi riflussi, le ultime catene di una società ormai vecchia e decrepita.
Mi domando come ed in quanto tempo le modificazioni provocate dalla rivoluzione telematica condizioneranno le generazioni future, l’assetto dei territori e delle città, gli edifici e la produzione artistica stessa, oltre che gli assetti produttivi e commerciali.
Per esempio quest’estate il Ministro per i beni culturali ha presentato un disegno di legge per la promozione della cultura architettonica basato essenzialmente su quattro punti: incentivare finanziariamente e dal punto di vista fiscale il restauro e la conservazione delle opere di qualità ed anche la promozione della buona architettura; incentivare gli insegnamenti di storia dell’arte e dell’architettura nelle scuole; rilanciare l’integrazione fra le arti incentivando l’inserimento di opere d’arte negli edifici più importanti; regolamentare l’assegnazione degli incarichi attraverso una nuova metodologia dei concorsi. Allora questo potrebbe essere un primo passo perché le costruzioni tornino ad essere architettura?"
"Detta così mi sembra ambigua e per nulla significativa come proposta di legge. Una cosa è definire il ruolo dell’architettura, altra è promuovere l’architettura di qualità. Quale qualità poi è tutto da vedere: chi deciderà ? Le solite commissioni miopi e burocratizzate o stuoli di critici taglieggianti e censuranti tutti coloro che non faranno parte dei loro protettorati? C’è solo da rallegrarsi del fatto che venga insegnata la storia dell’architettura nelle scuole, sarebbe un’assoluta novità dato che fino adesso nulla si è fatto in questa direzione. E stì concorsi mi hanno stufato. Decenni di farse, squallide prese in giro, strumenti dell’inettitudine politica per rimandare i problemi. I concorsi di adesso poi. Ho visto un bando su internet che chiedeva un fatturato minimo per potervi accedere. E’ una vergogna. Roba da non credere. Adesso toglieranno anche ai privati la libertà di scegliersi l’architetto, vero? Fra un po’ tutti dovranno bandire concorsi e così altra cartaccia si assommerà alle montagne di leggi, decretini, regolametini. E così scompariranno anche quelle poche opportunità per coloro che si mantengono in posizioni tangenziali o marginali. Spero che riescano a trovare un buon sistema ma ne dubito molto. Bene per l’integrazione, sono già state fatte nel dopoguerra leggi in questo senso. Storicamente l’architettura è sempre stata la madre di tutte le arti, è solo in questo secolo assurdo che essa si è spogliata di tutto per vestire i panni sociali dell’edilizia economica per la casa, oppure di strumento monumentale di rappresentazione delle dittature naziste o staliniane, oppure dei quartieri per gli operai, dei quartieri residenziali per i ricchi, delle zone industriali. Dove vuoi metterle le sculture o gli affreschi in un quartiere dormitorio per gli operai della grande fabbrica se i prezzi di tali costruzioni non sono nemmeno sufficienti a renderle durature o semplicemente abitabili ?"
"Certo vista così, conterà poco anche questa proposta ma credo che qualcosa voglia dire lo stesso."
"Che il Ministro si preoccupi di cancellare l’idiozia dei regolamenti, che semplifichi le leggi, che tolga vincoli assurdi ove non servono, che elimini tutte quelle restrizioni che fanno nascere gli edifici già monchi in partenza, allora vedrai che poi tutte quelle belle parole come promozione, integrazione fra le arti, formazione diventeranno subito importanti."
"Certo, capisco cosa vuoi dire, e anch’io la penso così. Progettare oggi un edificio è come camminare in un campo minato lungo un percorso predeterminato, periglioso ed impervio. Ma se gli orrori sovrastano il territorio, allora mi domando dove saremmo andati a finire senza le mine."
"Ma guarda ai risultati: tante leggi per costruire tanta spazzatura; perfino l’edilizia economica e popolare affidata ai grandi maestri ha prodotto costruzioni fatiscenti, già decrepite in pochi anni, come minimo estranee all’uomo, ma direi di più, respingenti ed opprimenti."
Jaco mi stupiva sempre di più; capivo come non parlasse per slogan o per sentito dire, anzi al contrario, ascoltando le sue parole, spesso ripercorrevo pensieri ed osservazioni che anch’io avevo dovuto annotare. Mi veniva in mente l’ultima volta che andai a trovare un mio caro amico al Gallaratese. Ne rimasi sconvolto.
Il famoso e magnifico porticato a setti verticali di Aldo Rossi, ormai transennato in più parti per i crolli delle cornici, controsoffittato a perline in plastica bianca per far passare gli impianti già da sostituire, mi aveva lasciato un’amara sensazione di sconfitta. Una comitiva di giapponesi fotografava l’edificio mutilato, deserto, sporco, degradato, e guardandoli, mi vergognavo. Mi guardavo intorno tra panni appesi al ballatoio, serramenti rotti, ferri arrugginiti, intonaci scrostati, tapparelle rotte, in un deserto, in una rovina, in un luogo astruso e morto. Un senso di disagio e di estraneità ti prende là dentro. Allora in questo aveva ragione lui. Pur essendo stati per anni uno dei massimi esempi per gli studenti di architettura di mezzo mondo, quegli edifici non avevano retto il tempo. Anzi il brevissimo tempo della loro esistenza li aveva già seppelliti ed annichiliti, come avviene ad un essere umano ammalato di un cancro incurabile. Ma pensavo che, in fondo, il progettista è l’ultima ruota del carro, che non è colpa del maestro se la sua stecca nel giro di venti anni è diventata una tremenda rovina metropolitana periferica. Le cause vanno ricercate altrove. Eppure Michele Sernini, in anni durante i quali solo accennare ad una critica nei riguardi di un edificio come il Gallaratese ti metteva al bando al tal punto da rischiare la carriera accademica, lui e qualche altro pensatore già misero sul tavolo i primi dubbi. Ma nessuno li stava ad ascoltare. Codazzi informi di studenti infatuati correvano estasiati a visitare e copiare il porticato come fosse stato un quadro di De Chirico, senza accorgersi di nulla, con gli occhi bendati. Ancora oggi quegli stessi studenti di allora, edificano costruzioni in stile rossiano, come anni addietro fu per lo stile scarpiano, riempiendo le periferie delle conurbazioni diffuse di edifici in stile, manieristi, naturalmente privi del garbato talento del maestro, tanto da divenire brutti ed avulsi, funghi velenosi e pericolosi.
Tentai comunque di proporre a Jaco qualcosaltro di positivo:
"Oggi l’arte potrebbe rimaterializzarsi nella riscoperta degli antichi mestieri, nella valorizzazione delle arti applicate a cui mi pare alcuni studiosi si stiano dedicando con profitto. Fra qualche giorno dovrò fare un intervento ad un convegno sulla nuova figura di artigiano metropolitano. Ci sarà anche Enzo Biffi Gentili che ha da poco inaugurato MaterMateria, la nuova biennale di arti applicate a Matera. Io stesso dedico del tempo alla salvaguardia delle arti minori ed insegno agli artigiani la storia dell’arte e dell’architettura, perché penso che la cultura della materia sia sempre più necessaria per salvare le tradizioni locali, quel saper fare tra arte ed artigianato che dovrebbe diventare nutrimento per le generazioni future."
"Questa poi è bella ! Dopo che per cinquant’anni si è fatto di tutto per distruggerle"
"Sono degli intellettuali che cercano di salvare qualcosa, di ridare opportunità ad un settore del fare che sarà di vitale importanza nei prossimi anni"
"Va bene, mi fa piacere che lo facciano, anzi li ammiro per questo, ma non credo proprio che una buona mostra potrà aiutare l’artigianato artistico ad emergere dalla palude dei prodotti industriali di consumo. Pensa allo sfacelo dei musei italiani, pensa a quanto poco si è fatto e tuttora si fa perché chi lavora con le mani almeno occupi una posizione socialmente dignitosa e perché i figli di questi vogliano imparare il mestiere con la stessa ambizione che nutrivamo noi quando volevamo diventare architetti. No, la maggioranza dei loro figli ambìscono ad elevarsi socialmente ed economicamente e per ottenere questo, e presto, sono disposti a tutto."
"Guarda che le cose stanno cambiando, molti giovani hanno capito e si dedicano con passione ed ammirevole abnegazione all’apprendimento di questi mestieri."
"Se lo dici, allora sarà vero; ma non mi convinci. I miti oggi sono altri. Almeno questo è quello che vedo navigando in internet ogni tanto. Sì, sì, trovo anche molte cose interessanti, mi interessano questi che chiamano gli artigiani del web che sperimentano nuovi linguaggi per comunicare; mi interessa capire la realtà virtuale, ci provo e ci ragiono su. Ma anche nella rete le mani dei potenti calano come artigli di un predatore"
"Nei mesi scorsi ho partecipato alla realizzazione di alcuni siti internet di industrie come direttore artistico. Mi è piaciuto sondare un po’ questo pianeta a me sconosciuto, ma ho capito che su internet la cosa più evoluta è l’assenza di grafica, è la leggerezza, è la modificabilità. Allora ho deciso di lasciar perdere, per ora."
Ci perdemmo ancora un po’ divagando e scambiandoci supposizioni più o meno suggestive sulla rete informatica, quando verso le 21.30, Jaco decise di chiudere le danze e che ormai fosse troppo tardi per continuare a ragionare. Aggiunse un ceppo al focolare, mi spiegò gentilmente ed affabilmente il funzionamento del bagno ed augurandomi buona notte si arrampicò sulla scaletta verso il piano superiore, senza chiedermi di visitarlo. Mi distesi sul fouton col mio sacco a pelo e mi addormentai quasi subito guardando i salti del fumo nella cappa del camino.


Era ancora buio quando discese dalla soffitta. Si muoveva piano piano a passi felpati per non disturbarmi, ma io ero già sveglio.
"Ciao Jaco" gli dissi con una voce un po’ ridicola.
"Ti ho svegliato? Mi dispiace."
"No, no, non ti preoccupare piuttosto che ore sono?"
"Le cinque e mezza."
"Mamma mia, che presto!" pensai.
"Devi fare qualcosa di particolare?" chiesi incuriosito.
"No, mi sveglio sempre molto presto al mattino. Ma tu riposa ancora se vuoi."
Aggiunse un altro ceppo nell’alare pieno di cenere ancora calda. Con un rametto rigirò qualche brace ed in pochi attimi il fuoco riprese a canticchiare.
"Il segreto è seccar bene la legna" aggiunse sottovoce come sapesse che lo stavo osservando. Poi dal rubinetto dell’acquaio fece colare un po’ d’acqua nel bollitore e lo poggiò direttamente sulla cenere. Tagliò dalla pagnotta due fette di pane e le avvicinò al fuoco, sulla pietra del focolare. Poi andò giù nel magazzinetto interrato e tornò su con un paio di patate e qualcosaltro in una ciotolina.
"Organizzo sempre al mattino il mangiare della giornata."
Avevo un po’ di freddo, e così indugiavo ancora dentro al sacco a pelo nell’attesa che il fuoco stemperasse un po’ l’aria
Jaco in maglietta, pantaloni alla zuava in velluto e sandali, a piedi nudi, di sicuro non sentiva freddo Scomparve per qualche minuto in bagno ed io ne approfittai per alzarmi, infilarmi i pantaloni ed un pile e per scaldarmi un po’ vicino al fuoco. Avrei dormito volentieri ancora un paio d’ore ma non volevo nemmeno perdere nulla di quella giornata che mi aspettavo piena e che temevo anche faticosa.
Quando rientrò mi trovò seduto sul bordo del focolare con le mani protese verso il fuoco.
"Hai freddo?" mi chiese dolcemente.
"No, no, tutto bene."
Il pane caldo con il miele ed un buon thè mi riconciliarono subito con il mio stomaco brontolante per la levataccia. Intanto Jaco, chiacchierando del più e del meno, eseguiva lavoretti consueti a gesti sicuri come automatici: una bella pulita alla cucina economica, una spazzettata sul bordo del focolare, una riassettata sul davanzale delle cibarie, una lunga guardata al quadro sul cavalletto, una rimestata sulla ciotola della colla
"Vuoi un altro po’ di thè ?"
"Sì grazie."
"Poi comincia a prepararti che andiamo fuori."
Si diresse al tavolo del computer e senza sedersi, dopo aver acceso il portatile "Ieri sera non abbiamo finito un discorso. Hai detto come faranno a cambiare le cose se gli intellettuali se ne stanno rintanati chissà dove. Qualche anno fa, la mia scelta di vita si sarebbe trasformata in un esilio ed io in un eremita. Oggi è diverso. Vedi, io con questa macchinetta qui, tengo rapporti intellettuali ed anche umani con molte persone in tutto il mondo. Se ne ho voglia mi informo su qualsiasi cosa, scambio opinioni attraverso la posta elettronica ma soprattutto attraverso il mio sito internet"
"Il tuo sito internet ???"
"Ho un piccolo sito internet concepito allo scopo di divulgare, annotare, pubblicare pensieri, testi, poesie, piccoli ragionamenti, saggetti su argomenti di varia natura. Come una rivistina che mette in rete la mia anima"
"Questa poi non me la sarei mai aspettata!" sorridevo tra il divertito e lo stupito. Ma la sorpresa aumentava con le parole di Jaco.
"Ecco vedi ? Guarda qui" indicando lo schermo "Ieri ho avuto 360 visitatori. Aspetta che controlliamo di cui circa centocinquanta hanno letto gli ultimi appunti che ho inserito"
"Incredibile."
"Sai, i mesi d’inverno qui sono lunghi. Aspetta. Ecco vedi qui. Ho trentacinque e-mail a cui rispondere. Un attimo ancora ah, bene, è arrivato quello che aspettavo. E’ un giapponese che mi manda un proverbio orientale; mi è utile per sviluppare un mio discorso sulla compenetrazione tra dentro e fuori, tra corpo e spirito, tra il fare e la mente, tra la tecnica e la cultura. Poi se vorrai ti farò vedere e leggeremo le e mail; adesso scarico tutto nel disco fisso se no consumiamo troppe batterie. Dobbiamo andare. Copriti che fa freddo, c’è alta pressione ed è bel tempo"
Avevo imparato a non basarmi sull’abbigliamento di Jaco, e così mi infilai addosso tutto quello che avevo, comprese le ghette.
Una sferzata d’aria fresca, appena usciti, mi lavò il viso portandosi via gli ultimi resti della notte. Quel buio del mattino presto, limpido con le ultime stelle a luccicare, che, si capisce, è il buio prima dell’alba. Subito arrivò il cane a far feste al suo padrone.
"E’ un bovaro dell’appenzell, è addestrato anche come cane da valanga e da soccorso. Non gli sfugge niente, è un guardiano eccezionale. L’ho portato su con me quattro anni fa che era un cuccioletto."
Entrammo in stalla, e con noi Rube, che di solito dormiva sotto il portico dell’attrezzeria. Jaco riempì un secchio di latte mungendo velocemente le due mucche.
"Una volta ti farò vedere come faccio il burro, la ricotta affumicata ed il formaggio"
Sparpagliò con il forcone un po’ di fieno, andò a salutare Picchio e completò il suo giro di controllo fino al recinto del pollaio.
"Tieni, bevilo che ti scalda un po’" porgendomi un ovetto ancora tiepido.
"Ne bevo uno al mattino quasi tutti i giorni: se devo lavorare tanto, ne bevo anche due."
"Una bontà" dissi sinceramente dopo averlo trangugiato con avidità,
"eppure al mattino non riesco mai a mangiare"
"E’ l’aria di montagna che ti apre i polmoni e lo stomaco. Dai andiamo a finire il nostro albero."
"Mio Dio", pensai, "anche oggi."
Ma in fondo non ero per nulla dispiaciuto, anzi. Certo non era quanto di più riposante avessi desiderato per il mio week end, ma era davvero rilassante per la mia mente intasata e per le mie viscere stressate.
Tra gli alberi del bosco, fossi stato solo, avrei avuto paura. Con Jaco mi sentivo tranquillo, e così potevo godere di quello spettacolo meraviglioso. I primi bagliori del giorno s’intrufolavano tra i rami bagnati. Tutto doveva apparire placidamente immobile ed invece io sentivo fruscii d’aria fresca, tremolii, fremiti come se nulla invece fosse davvero immobile; come se con la luce tutto si risvegliasse, perfino l’aria. Pensavo a quante albe avevo passato in mare Jaco pareva estasiato, anche lui fermo, con l’accetta in mano a guardare tutt’intorno il nuovo giorno che nasceva, ad annusare, a farsi sfiorare dagli aliti gelidi dell’aria tersa, a cercare chissà cosa, ad aspettare chissà cosa. Incrociando i nostri sguardi, ci scambiammo un sorriso. I suoi occhi luccicanti s’illuminarono sul volto asciutto e scuro, scavato sotto gli zigomi come da due lunghe e profonde fessure. Da quanto tempo non mi accadeva di scambiare con un uomo uno sguardo ed un sorriso così intenso, così naturale, così fraterno e così complice. Forse da ragazzi, magari in barca; sì, da ragazzi ci si guardava negli occhi con tanta chiarezza e semplicità. Capii di aver trovato un amico e il fremito dell’alba entrò anche dentro di me con un brivido di emozione.


Portammo giù alcuni rami trascinandoli sul pendio. Raccolse un porcino, poi riempì di rametti e di pigne un sacco di tela, che teneva piegato nel tascone dei pantaloni.
Procedendo nel lavoro, anch’io prendevo un po’ di confidenza con l’accetta. Verso le 8.30 avevamo completato un altro bel carico sulla legnaia.
"E’ ora di fare uno spuntino."
Mangiando pane e qualche fettina di speck sul tavolo fuori e bevendo latte, mi raccontava di quei luoghi e di una battaglia della grande guerra, indicandomi le posizioni delle trincee, su verso le cime in direzione del Mulaz; mi insegnava così i nomi delle montagne e mi descriveva il paesaggio con dovizia di particolari. Giù, intorno alla malghetta, le mucche già pascolavano nel prato verdissimo, il fumo dal camino fuoriusciva denso
"Fra qualche giorno se ne vanno, portano le bestie a valle e chiudono tutto. Passeranno su a prendere i miei vitellini, e qualche altro animale, poi completeremo gli scambi. Aspetto due forme di vezzena, più speck, pancetta e salame, delle farine, due sacchi di mangime, dei medicinali per le bestie, un sacco di grano per i polli, una tanica da 20 litri di gasolio, e poi faremo insieme un po’ di lavoretti. Mi aiuteranno soprattutto a ripassare le scandole del tetto ed a realizzare alcune protezioni a monte per la neve. Loro ogni anno mi portano su molta altra roba e poi in realtà sono sempre disponibili per qualsiasi cosa."
"Come mai?"
"Perché sono molto simpatici"
"Forse anche loro ci guadagnano dallo scambio?"
"Non svilire così la gentilezza di questa gente di montagna. Sono buoni di indole. Loro usano per cinque o sei mesi la mia malghetta con la stalla ed il mio pascolo. In più sfruttano il latte di alcune mucche di mia proprietà. Possono anche usare la malga per attività varie di ristorazione per gli escursionisti, insomma possono farne ciò che vogliono, purchè me la tengano bene. Sono persone deliziose. Loro sono contenti dello scambio ed io anche."
Continuavo a credere che anche questo baratto fosse sbilanciato a sfavore di Jaco, ma cominciavo a capire come al mio amico non importasse nulla l’accumulo dei beni; a lui interessava solo avere a disposizione ciò che gli era strettamente necessario per i suoi programmi. Non era poi così importante la corrispondenza in valore economico delle merci o dei servigi scambiati, quanto al contrario la reciproca soddisfazione e la soluzione ad un bisogno. Mi sembrava anche di capire che Jaco in tutti i suoi scambi privilegiasse per principio l’altro, non so se per una forma innata di generosità o per una specie di calcolo per così dire politico. Chiesi chiarimenti ma dalle sue risposte capii solo e semplicemente quanto gli facesse piacere concludere un buon baratto lasciando l’altro completamente soddisfatto ed appagato. Mi accorgevo di quanto impegno mettesse nella preparazione del suo prossimo futuro e ne comprendevo anche le ragioni. Cinque o sei mesi lassù, da solo, nel più completo isolamento, con temperature rigidissime ed abbondanti nevicate. Una vita per certi aspetti estrema, ed anche rischiosa. Un piccolo incidente in quella solitudine può trasformarsi facilmente in un dramma. Certo era ben organizzato: possedeva una radio ricetrasmittente, un telefono satellitare, un computer con il quale inviare messaggi, in più con i suoi baratti aveva escogitato vari sistemi per garantirsi un’eventuale assistenza attraverso il soccorso alpino, il farmacista e la gente del paese
Chiesi ancora chiarimenti su questi aspetti legati alla sua sicurezza e ne ottenni spiegazioni succinte ma abbastanza consolanti. Non posso dire che per lui fosse già diventato normale passare tutti quei mesi isolato tra la neve in alta montagna ma sono certo che non fosse spaventato o preoccupato, né angosciato dalla lunga solitudine che l’attendeva. Probabilmente gli strumenti ed i metodi di comunicazione e di relazione sociale che aveva scelto, appagavano le sue esigenze. Certo la rete informatica ti permette di interagire, pensavo, ma non può sostituire la fisicità di un rapporto reale
"Ricordati che dietro una qualsiasi realtà virtuale, c’è sempre un fenomeno reale" rispose alla mia esplicita domanda sulla solitudine "per cui ti assicuro che, superate le prime barriere, poi ti abitui ad intrattenere rapporti su internet senza patire troppo l’estraneità della macchina. E’ un buon modo per comunicare, elimina completamente tutta una serie di freni che altrimenti spesso divengono insormontabili; modifica la percezione dell’altro e la percezione che l’altro ha di te, la tua identità può cambiare a piacimento
E’ molto interessante: uno può essere maschio e dire d’esser femmina, può essere vecchio e dire d’esser giovane oppure può usare il linguaggio di un ragazzino, può essere brutto e dire d’esser bello.
La fisicità del rapporto umano transmuta in una realtà virtuale che, per sua natura, può essere completamente asessuata, atemporale, aspaziale.
Capisci cosa voglio dire ? Il mio sito internet è un luogo del pensiero, è un contenitore di idee, ma nessuno dei miei frequentatori, anche i più vicini nella comunità virtuale che ormai si è creata, nessuno di loro sa chi sono io, cosa faccia io, dove e come viva io. Non è il sito di qualcuno che si fa pubblicità o utilizza la rete per offrire servizi o per commercializzare qualcosa. Cerco di usare la rete per quello che mi può dare per la mia nuova vita, è un sondaggio in un nuovo mondo dove l’identità in senso lato delle persone non è più importante, né il censo, né il luogo. Spesso mi inserisco nella comunità dei miei lettori come fossi uno di loro ma vedi anche dire i miei lettori è sbagliato, perché loro interagiscono e spesso modificano più di quanto faccia io stesso. Nel mio sito entra chiunque, non ci sono password né nomi da cliccare. Chi vuole si presenta, altri non lo fanno, altri ancora si presentano con identità inventate, altri probabilmente dicono di essere qualcuno che non sono. Ciò che conta è ciò che scrivono, o le immagini che mandano
Ho naturalmente anche l’indirizzo di posta elettronica, quello che hai usato anche tu, corrispondente alla mia persona fisica ma è altra cosa rispetto al mio mondo internet. Non che io ne stia facendo il panegirico, di questo internet, perché ci sono anche tanti problemi. Ti spiego solo come lo uso e come mi permetta, in fondo, una vita sociale di interrelazioni intellettive con altri, che altrimenti non avrei. E’ uno strumento punto e basta. Con tutti i suoi pregi ed i suoi difetti."
"Beh, certo, scambi opinioni, scrivi, pubblichi, invii messaggi, ma la presenza di una persona è un’altra cosa, o no?"
"Sì è un’altra cosa, ma come vedi questa persona non c’è. Anche se la mancanza esalta il desiderio, io mi sto abituando a vivere solo, e ti dirò, mi ci trovo anche abbastanza bene. Mi piace mangiare da solo, è il momento in cui penso di più. Se non ricordo male Leopardi elogiando la monofagia parlò di come ne trovasse giovamento la sua ispirazione. L’ho sentito dire da Zanzotto. Non è così ?"
"Non lo ricordo assolutamente."
"Non importa, a me succede di pensare e molto, quando mangio"
Jaco non aveva troppa voglia di parlare della solitudine, per cui mi concentrai sull’ispirazione:
"Allora dove trovi le tue muse?"
"Tra le pieghe dei monti, guardando gli alberi, tra i sassi lungo il ruscello. In primo luogo il paesaggio, sì proprio la bellezza di questo paesaggio mi apre il cuore e la mente, è una fonte inesauribile. E’ una specie di estasi paesistica. Poi nei ricordi; cerco soprattutto dentro di me gli stimoli e l’ispirazione. Poi ci sono altre cose che mi aiutano come la musica, oppure i racconti della gente che incontro. Sicuramente anche attraverso il computer cerco e a volte trovo qualcosa di importante per me. La solitudine aiuta la mia ricerca, dato che proprio l’esser solo mi permette una completa e continua concentrazione. Ma anche le rinunce, l’assenza, le mancanze accentuano i miei sentimenti"
Mi pareva che la sua vita un po’ assomigliasse a quella di un frate, l’organizzazione del suo tempo alla laboriosità benedettina, e mi domandavo se non fosse anche spinto da una solida fede religiosa.
"Qualche volta prego Dio; delle volte mi sento vicino a Dio attraverso la natura che ho intorno; ma la mia rinuncia non è una rinuncia francescana ai beni materiali o terreni allo scopo di arricchire l’anima dal punto di vista religioso o della carità cristiana o di una spiritualità monacale. Qualcosa c’è, ma sfortunatamente la fede che Dio mi ha donato è ancora debole, o quantomeno mi sembra non si sia ancora manifestata del tutto. Comunque tra i pochi libri che ho portato con me nella nuova vita, c’è la Bibbia."
"E che altri libri hai portato con te ?"
"Sono circa un centinaio; c’è il corano, ed altri testi sacri; alcuni dizionari, alcuni testi di filosofia; poi ci sono le opere complete di alcuni sommi poeti, Dante, Petrarca, LeopardiPoi una storia della Musica, alcuni manuali e saggi di fisica, matematica, scienzeAlcuni testi di estetica ed alcune opere della grande letteratura mondialeUhm, non so se dimentico qualcosa. In ogni caso, ormai, trovo tutto ciò che mi serve su Internet! Comunque sono preponderanti le opere dei poeti che sono circa cinquanta perché io penso che la poesia con la musica sia l’arte più alta e più completa.
Attraverso la poesia dei sommi si legge la storia, la filosofia, si scoprono le usanze ed i punti di vista di un certo periodo storico senza i filtri e le distorsioni degli storici; si colgono sfumature sublimate, si sente l’intorno, l’esterno e l’interno, il dentro e il fuori"
Tutta la sua vita era incentrata sull’arte, tanto che, perfino la quotidianità più banale si trasformava in un qualcosa di sacro, di simbolico. Cercava una perfezione tutta sua, una qualità ed un rigore tanto profondi ed intrinsechi al suo modo di essere da apparire perfino normali e naturali. Ma non era affatto normale la qualità della sua vita. Era del tutto speciale e costruita per vocazione attraverso una continua alterazione poetica della quotidianità, così da avvicinarsi sempre più all’idea, al suo progetto Pareva che nulla potesse distoglierlo da questa ricerca d’ispirazione e che tutto dovesse contribuire come un mattone in un muro al raggiungimento del suo obbiettivo, perfino i lavori più umili e spiacevoli. Credo che fosse una ricerca antropologica. Si comportava come se stesse sperimentando qualcosa, ed in effetti scopriva su se stesso, protagonista e spettatore, antichi gesti e fatiche di una cultura ormai quasi definitivamente morta e sepolta. Cominciavo a capire meglio i suoi discorsi sulle cataste di legna, sull’orto, sul cibo, sui lavori fatti bene; la sua rinuncia a qualsiasi ausilio moderno o tecnologico nell’espletamento dei lavori manuali da parte del protagonista, mentre lo spettatore navigava in internet e convogliava i suoi pensieri ed i progressi della sua ricerca in un sito multimediale modernissimo e super tecnologico. Jaco spettatore elaborava criticamente quanto Jaco protagonista metteva quotidianamente in pratica; l’antropologo del 2000 osservava un uomo vivere come si viveva cento anni prima. Ma al contempo la vita antica e naturale, povera e pesante del Jaco protagonista stava provocando una specie di mutazione al Jaco spettatore.
In fondo qualcosa di simile stava succedendo perfino a me dopo soli due giorni di permanenza sull’altipiano. Mi sentivo rinfrancato e rinvigorito, sentivo la mente più fresca e più pronta, sentivo dei grandi benefici fisici e mentali e soprattutto, con la pulizia dell’aria fresca, quella vita era anche disinquinata da tutta una serie di abituali e tossici malesseri. Era bello sentirsi così, ma chissà lui quali livelli di purificazione e di sintesi dopo tutto quel tempo stava provando. La sua era una specie di alterazione definitiva, un’estasi, una spoliazione.


Il sole batteva sulle pietre del pavimento. Tutto pareva gioire ma con una certa malinconica dolcezza preautunnale.
Com’era bello!
Tutto , intorno, mi pareva bellissimo.
"Qua si sta così bene perché si è dentro a una natura quasi incontaminata in un’assenza totale di bruttezza. Qui non c’è sporco, non c’è violenza se non in qualche raro evento naturale, non c’è rumore se non dell’aria, degli alberi e delle rocce, non c’è cemento, né automobili, né smog, né sovraffollamento, non c’è competizione, non c’è invidia, non c’è potere, non c’è denaro"
"E vorrei anche vedere" risposi cercando d’esser allegro "siamo a 2000 metri sul confine di un parco superprotetto, lontani da tutto e da tutti, in un posto dove si arriva a piedi o con l’elicottero"
"Proprio così"
"Siamo isolati, Jaco, come si stà quando si è in mezzo al mare Qui è come essere in mezzo all’oceano, io ci son stato e lo so. Ma non oso pensare a cosa sarà l’inverno!"
"Ah, per me è un’esperienza nuova ogni volta. E’ qualcosa di straordinario, quello strano specchio ovattato che è la neve copre tutto di un silenzio bianco ed io ci sto in mezzo a centellinare le risorse, la cambusa e la legna ed a pensare, a disegnare, a dipingere. Non ho mai avuto confidenza con i megastore né con le folle, in compenso adesso ho quasi imparato a stare solo, a scaldarmi usando poca legna, a cibarmi di poco, a non avere paura, a non cadere in depressione"
La mattinata trascorse rapidamente lavorando in stalla prima, nell’orto poi. Quel piccolo fazzoletto di terra coltivato amorevolmente ben descriveva l’ordine morale e la perfezione di Jaco; coltivato a lunghe striscioline di terra perfettamente parallele, dotato di un sistema efficace di deflusso e drenaggio dell’acqua piovana, pareva un giardino o un quadro di Klee.
"Mi diverto ad accostare le diverse coltivazioni in base ai colori, alla forma delle piante, ai tempi di maturazione, anche se l’orto è una delle cose più difficili tra quelle che sto imparando nella nuova vita. In più con questo clima , riesco a coltivare solo poche cose, ma quelle che riesco a titar su, vengono proprio bene."
Mi regalò dettagliate spiegazioni e con dovizia di particolari mi mostrò alcuni tipi di coltivazione, le relazioni con la luna ed il microclima di quel fazzoletto di terra; mi parlò delle onde elettromagnetiche e della naturale radioattività delle rocce e di un sacco di altre cose. Il suo approccio umile e garbato, rasserenante, diluiva quelle che erano delle vere e proprie lezioni di varia scienza ed umanità, in una piacevolissima conversazione, in un racconto fantasioso e poetico. Usava spesso citazioni erudite o proverbi popolari che non so né come né da dove riuscisse ad imparare. Insieme ai gesti rituali ed atavici tramandava una cultura orale antica, se ne faceva testimone e custode come fosse la sua vera ricchezza. Sapeva bene il fascino che esercitavano su di me quei ricordi popolari e così, lavorando, parlava parlava parlava
Durante il pranzo tornammo ai nostri temi prediletti: l’arte , l’architettura e la città. Cucinando il porcino tagliato a fettine e la polenta ci rilassammo con un buon bicchiere di vino; voleva sapere del mio lavoro, dell’organizzazione del mio studio, delle ultime opere e mi incalzava di domande. Raccontai della palazzina per uffici appena completata, ne volle descrizioni dettagliate e minuziose e mi pregò anche di fare qualche schizzo. Ne venne fuori un’analisi molto approfondita ed interessante, dato che le domande mi venivano poste da uno che conosceva il mestiere. Gli raccontai le necessità del committente, del luogo, dell’area dove trovare lo spazio per costruire, del percorso ad ostacoli tra i regolamenti, le leggi, le norme di attuazione, i vincoli, delle scelte tecniche - strutturali ed impiantistiche - , del cablaggio dell’edificio, dell’antincendio, del giunto di dilatazione, delle scelte statiche e dei calcoli dello strutturista Poi volle sapere degli errori, delle varianti richieste, dell’impresa esecutrice, dei miei collaboratori e di tutti i problemi e delle mie eventuali insoddisfazioni.
"Volevo costruire un edificio onesto, pulito, semplice; il più normale ed educato possibile. Costruire oggi in Italia è difficile, il lungo percorso della realizzazione assomiglia ad una scalata impervia, è una faticosa mediazione tra istanze diverse. E’ veramente difficile difendere il progetto da mutilazioni, tanto che spesso vedi edifici monchi; o proteggerlo dal sovrapporsi confuso di varianti e mutazioni. Così in questo caso ho investito moltissimo nella progettazione e nelle fasi preliminari all’esecuzione. Sono riuscito a completare un appalto generale con un’unica, ottima impresa, che ha accettato perché il progetto era definito fino al dettaglio, gli esecutivi erano completi, gli abachi assolutamente esaustivi. Abbiamo completato l’edificio in dieci mesi dall’apertura del cantiere, purtroppo ci è stata imposta qualche variante ma penso che l’operazione e l’esito finale meritino la sufficienza. Almeno spero."
"Certo sentire parlare di semplicità e di normalità da un architetto oggi è inusuale. Quegli stessi professoroni che riempiono pagine e pagine con le loro filippiche contro la bruttezza, poi sono gli stessi che costruiscono mega edifici invasivi ed orribili, magari senza aver neanche mai visto dal vivo il luogo ed il cantiere e magari avendo appena intravisto il progetto. Per non parlare di tutti quegli architetti che costruiscono obrobri semivetrati, super espressivi, apparentemente tecnologici ma in realtà di bassa tecnica, maleducati per dirla con il tuo linguaggio. Vogliono farsi vedere, vogliono spiccare, vogliono distinguersi e così riempiono il territorio di funghi velenosi"
Jaco dal suo isolamento e dall’alto del suo altipiano, poteva liberamente dire ad alta voce cose del genere, senza timori di sorta per la carriera, dato che già vi aveva rinunciato. Spesso con crudezza e sorprendente lucidità, senza giri di parole, esprimeva concetti duri e a volte persino difficili da accettare. Il suo disincantato pessimismo lo portava spesso a considerare in modo del tutto negativo l’intera categoria professionale degli architetti.
"Gli architetti credono di sapere tutto, vogliono predire il futuro, parlano poco di mestiere e tanto di sociologia, di urbanistica, di economia. Per loro fare un lavoro normale è uno svilimento della creatività; sono intrisi di arroganza ed accecati da una nebbia tuttologica e presenzialista, distratti da mille cose e poco concentrati nel saper fare il loro lavoro. Sarete delle servette diceva Plecnik e aveva ragione; delle servette anche un po’ pettegole e chiacchierone. Guardassero l’Ospedale Degli Innocenti, o Borromini, o Palladio, capirebbero qualcosa di più; invece decostruiscono, sproporzionano, inventano luoghi inabitabili ed inospitali; edifici gelati d’inverno, bollenti d’estate, dove vivere condizionati in tutti i sensi; dove l’aria dev’essere condizionata se no muori. Ma i muri li fanno ancora questi architetti? Scusami se mi scaldo, ma sai, quando li han tirati su quegli obrobri, poi restano lì per anni ad offendere e sporcare la vista dei tuoi figli e dei figli dei tuoi figli e per generazioni ancora. E allora, già il livello è basso di quasi tutte le costruzioni, se poi anche gli architetti mediano in basso o peggio edificano il loro ego represso con faciloneria ed arrogante invasività formale, allora dove andremo a finire ?
Lorenzo de’ Medici prese nei suoi cenacoli culturali Michelangelo appena tredicenne. Se li tiravano su i geni fin da bambini, ci investivano sostanze enormi e li mettevano a bottega ad imparare il mestiere, e li facevano partecipare alla vita artistica dei maestri. Tanto, tanto lavoro, adesso la chiamano formazione; va bene, chiamiamola formazione, questi imparavano l’arte, il saper fare, imparavano i mestieri con instancabile operosità ed immani sacrifici, per lunghi anni; vite intere votate all’arte ed alla formazione dell’artista. E poi il rapporto tra l’artefice ed il committente era tale per cui quegli stessi cenacoli culturali e gli artisti stessi modificavano, plasmavano, contribuivano a costruire le politiche delle signorie e dei casati. Lorenzo de’ Medici esportava i suoi artisti perfino per condizionare gli altri potenti
Pensa alla storiella di Carlo V che si inchina a raccogliere il pennello di Tiziano che lo sta ritraendo: simboleggia il potere che si inchina all’arte, il re si inchina di fronte al maestro. Proprio come oggi vero? I potenti investono nelle squadre di calcio e nelle televisioni, non certo nei cenacoli culturali; gli artisti strisciano sottomessi e i potenti, se si degnano di considerarli li considerano meno di zero.Luttwak e con lui Giorgio Bocca lo chiamano turbocapitalismo? Hanno ragione! Gli architetti servono ai turbocapitalisti per costruire a basso costo, in pochi mesi e senza qualità le loro speculazioni immobiliari. Poi quelli più di moda ed anche quelli più compromessi servono a loro per costruire sfarzose ville truccate da minimalismo, buone per le riviste patinate. Qualche volta mettere un artista in salotto fa figo e allora gli comprano pure qualche quadro per annaffiare il loro narcisismo. Ma tu prova a mettere un po’ di qualità nel progettare la fabbrichetta di un turbocapitalista magari del nordest, prova a metterci dei valori o più semplicemente a fare una buona opera di architettura. ‘Schei buttati via’, ti dirà, fantasie inutili; così dovrai fargli il capannone con la più squallida prefabbricazione, nel minor tempo possibile, spendendo il meno possibile e quindi con la minor qualità possibile. Produrre, produrre, produrre, questo è ciò che conta, accumulare fiumi di denaro il più velocemente possibile. Purtroppo l’economia ha preso il sopravvento sulla cultura e la politica. E gli amministratori ? Peggio che peggio. La loro maramalderia rasenta l’inverosimile, il sistema è tragicamente fallito; l’ignoranza dilagante e l’illegalità diffusa trasformano la cosa pubblica in un territorio di rapina e di conquista, in un far west di poteri dove i posti di comando vengono assegnati e spartiti per mille ragioni tranne che per quelle giuste e dove le decisioni vengono prese per mille ragioni tranne che per quelle giuste. Così le opere pubbliche, a parte casi rari, risultano poi rispondenti a questo degrado etico e civile e la mediazione dell’artefice scompare, livellata verso il basso, tanto da trasformare gli architetti in una categoria di conniventi e di semplici tecnici al servizio di amministratori senza scrupoli."
Jaco si accorse subito del mio imbarazzo e mi sorrise dolcemente.
"Non devi sentirti offeso. So che c’è qualcuno che ci prova Ma allora rispondimi a questo: quando mai e per quale ragione un amministratore dovrebbe oggi dare a te un incarico pubblico importante?"
"Io non ho incarichi pubblici, e per ora mi sono sempre tenuto lontano il più possibile da tutte quelle cose che hai appena detto."
"Vedi ? Per avere un incarico pubblico devi condividere, devi far parte, devi essere schierato. Oppure se non lo sei, devi accettare di essere un tassello, un ingranaggio di un disegno politico - nei casi buoni o di un disegno economico truffaldino nei casi più comuni. Devi essere l’uomo di qualcuno, devi strisciare ai suoi piedi. Loro devono essere sicuri della tua fedeltà, del tuo silenzio; ti usano come animale da traino a condizione che tu non apra mai il paraocchi; ti pagheranno anche carissima la tua connivenza e allora anche tu entrerai nella catena e non potrai più districarti."
"Come fai ad essere così sicuro di tutto questo?"
"Perché mi è successo, nell’altra vita. Ci credevo ancora e così lottai per avere un incarico, lottai con tutte le mie forze. Ottenuto l’incarico la gioia durò poche ore. Senza accorgermene mi trovai subito invischiato come un insetto indifeso in un’enorme ragnatela piena di ragni. Si trattava di un lavoro grosso ed importante per un importo di circa 30 miliardi."
"Però"
"Eh sì, solo che alla fine ne furono utilizzati 95. Per tutta una serie complicatissima di balzelli, contratti, convenzioni riuscirono a chiudere l’appalto sul progetto preliminare e così ottennero i finanziamenti . Le imprese vincitrici eran tutte prestanomi e dietro c’erano sempre i soliti; le tangenti volavano a fiumi, le varianti che mi chiedevano erano strumentali. Più soldi sarebbe costata l’opera, più soldi avrebbero intascato i politici. Nessun rispetto per il progetto e per il progettista. Consumavo le scarpe tra gli uffici per cercar ingenuamente di salvare il salvabile, ma il loro disegno era già stabilito ed io non avevo nessuno strumento né alcun potere di veto. Le mie lamentele petulanti diventavano ridicole. Quando si accorsero che avevo capito, allora decisero di mettermi buono: mi offrirono soldi e poi cominciarono a farmi la guerra. Rinunciai appena in tempo: inviai le mie dimissioni per ragioni di salute e mi defilai. Mi sostituirono con un servo che poi finì come un allocco in tangentopoli, un portaborse sfigato e furbetto. Dopo i processi comunque, anche se condannato, lui continua ad avere incarichi e i potenti si servono ancora di lui perché ha dimostrato di saperci fare e di essere uno di loro. Quei capi di allora maneggiano i fili dei burattini di oggi, perché questi nuovi non san che pesci pigliare, non hanno spessore e nemmeno esperienza. Così gli uomini dei capi di allora, ancora oggi, prendono gli incarichi, servono ai burattinai per accerchiare i burattini; sono strumenti di un potere sommerso; i vecchi potenti, dietro le quinte, continuano a decidere, la regìa è in mano loro e gli attorucoli sul palco ripetono meccanicamente sceneggiature suggerite."
"Certo che allora tu nell’altra vita eri veramente molto diverso da quello che sei adesso"
"Non credere. Ho solo cercato con tutte le mie forze di fare architettura. Ero un ingenuo. Credevo che alcuni princìpi fossero buoni per tutti Brancolavo nel buio. Come vedi le lacerazioni e le ferite non si sono ancora rimarginate. Ho provato un dolore profondo e lancinante, insopportabile quando ho capito. Ancora oggi convivo con questo dolore, credo che non riuscirò mai a dimenticare."
Jaco incupito, piegato, si chiuse in un interminabile silenzio. Il suo volto segnato, in quel momento, pareva quello di un uomo sofferente e come un bambino o un libro aperto, esternava con l’espressione del suo viso, ciò che provava nel più profondo del suo cuore. Era limpido e chiaro, senza facciate di circostanza, senza maschere, onesto. Mi piaceva moltissimo questa sua dote e questa sua capacità di esternare anche senza parole i suoi sentimenti e le sue sensazioni.
Cercai di sdrammatizzare "tu hai un viso fortemente espressivo, mi fai venire in mente Eduardo a letto che pensa al suo presepe, che soffre in silenzio. Il pubblico piange e poi applaude Dai andiamo fuori."
"Questa storia dell’architettura e del mio fallimento non riesco a togliermela di dosso; ci penso spesso con rammarico, anche con rabbia. Mi fa ancora male. Di tutte le altre cose dell’altra vita ho dei buoni ricordi, anche perché il tempo ti aiuta ad addolcirli e perché tendo a mantenere dentro di me le cose piacevoli e ad eliminare, a rimuovere quelle dolorose; ma sul discorso del lavoro, no, non riesco proprio a ricordare qualcosa di veramente positivo e piacevole. Non riesco a sopportare l’idea di aver tanto sofferto, di essermi invischiato in meccanismi così distanti da me , di aver accettato compromessi di quel tipo nella speranza di costruire qualcosa di buono. E’ il mio cruccio ed il mio peccato, e Dio mi sta facendo pagare la penitenza. Guarda che non ho mai preso soldi né ho mai partecipato a truffe o cose del genere in prima persona; ma quando vai a cena in un ristorante con un assessore ed un imprenditore che, ridendo e scherzando, tra un bicchiere di prosecco e una tartina di caviale, ti spiegano come hanno fatto a trasformare un area a verde pubblico attrezzato in un quartiere di condomini con quattrocentocinquanta miniappartamenti da cinquanta metri quadri; oppure che si accordano su come vincere un appalto; oppure ancora, quando senti l’assessore che dice all’imprenditore di comprare un area perché lì farà cambiare il piano regolatore spargendo denari a macchia d’olio, e tu sei lì, seduto al loro tavolo, allora sei anche tu come loro. Non sopporto l’idea di essermi seduto a quei tavoli e di aver condiviso il cibo con quella gentaglia"
"Non credo tu debba essere così duro con te stesso. Quello era un metodo diffuso, un sistema; chi più chi meno tutti sono stati sfiorati o anche involontariamente coinvolti"


Ce ne andammo nel pascolo a controllare gli animali, a fare un altro po’ di legna, poi a pulire la stalla, poi con la pompa a mano tirammo su dal pozzo un po’ d’acqua per il serbatoio, infine radunammo con l’aiuto del cane gli animali e richiudemmo il portone della stalla. Ormai le scorte di legna erano quasi completate ed anche le scorte di cibo, compreso quello per le bestie. D’altronde mancava poco alle prime nevicate.
Il cielo s’era un po’ velato e l’aria un po’ scaldata, pareva che il tempo dovesse cambiare di lì a poco. Verso le sei tornammo in casa; rientrando pensavo a quante ore di lavoro dalle sei del mattino: tolte le pause nove, dieci ore. Eppure non mi sentivo stanco, pur essendo fisicamente un po’ affaticato. Sapevo che il giorno dopo sarei dovuto partire e ne ero molto dispiaciuto: pur sentendo la mancanza della mia famiglia, mi sarei fermato volentieri ancora qualche tempo. La faccenda diventava sempre più interessante: mi piaceva Jaco, mi piaceva da morire la sua casa, mi piaceva la natura che avevo intorno, mi piaceva da morire ascoltare i suoi discorsi e mi piaceva parlare con lui e pensare. Mi rendevo conto di quanto fosse raro e prezioso tutto ciò, mi sembrava d’essere in un altro mondo. Mi sentivo felice e forte, mi sentivo appagato. Jaco mi aveva aiutato a trovare sintonie con l’ambiente in pochissimo tempo; ed anche tra noi, sarà stato per il tipo di vita a stretto contatto un po’ come succede in barca e per quella condivisione d’interessi, sarà stato per tante ragioni ma tra noi il rapporto si trasformò subito in una amicizia che io sentivo sincera, intima e profonda. L’intensità del nostro approccio era comunque tranquilla e normale, equilibrata, senza esaltazioni, rasserenante. Non c’era nulla di fuori luogo e nulla di eclatante, tutto pareva solido e vero come le rocce che avevamo dietro le spalle. Si parlava a lungo, ci si infervorava anche, ma senza esagerazioni e tutto questo era merito di Jaco: lui otteneva il rispetto perché rispettava gli altri, otteneva fiducia perché riponeva fiducia incondizionata; gli altri si comportavano bene con lui, perché lui si comportava bene con loro. Ed io mi sentivo fortunato ed onorato di essergli amico, anche se non sempre condividevo appieno il suo pessimismo.

Dopo aver acceso il fuoco sia nel camino centrale che nella cucina economica, ci rifocillammo a turno in bagno. L’acqua appena stemperata dalla canna fumaria della cucina, mi diede una sferzata salutare e mi tolse di dosso un bel po’ di tossine. Rientrato dal bagno lo trovai seduto sullo sgabello davanti al cavalletto. Sulla piastra una pentola con dell’acqua per il riso; le patate con la buccia sulle braci del camino, in un’altra ciotola un po’ di latte a scaldare, il pane già tagliato, come al solito, sulla pietra vicino al fuoco.
Lo lasciai in pace; mi infilai qualcosa addosso e cucinai il riso. Preparai la tavola rigirando di tanto in tanto le patate ed il pane. Avevo voglia di telefonare a casa, ma non volevo infrangere quel silenzio e quindi aspettai che Jaco ritornasse da me. Era talmente concentrato da sembrare in trance. Mi pareva si fosse un po’ bloccato davanti a quel quadro, invece dopo un po’ mi spiegò che sentiva molto quell’opera, ed anzi ne era molto soddisfatto. Mi fece vedere gli ultimi bozzetti e capii che aveva ancora molto da fare
"Sono circa a metà del lavoro, ho ancora qualche dubbio. Guarda questi due bozzetti: potrei procedere così" mostrandomi gli schizzi "oppure così. Poi non sono ancora convinto di quel verde, lo vorrei più freddo, in più vorrei dare un po’ più di spessore a questa crosta sulla sinistra è ancora troppo bassa ma ho paura di rovinare la trasparenza che mi è riuscita bene, stavolta."
"Se vuoi, il riso è pronto."
"Sì, vengo."
Ero affamato ; mangiammo riso, una patata a testa ed un pezzo di formaggio. Poi una mela. Come dessert latte caldo, pane e miele.
Fuori ormai s’era fatto il buio, e dentro anche. Jaco rinvigorì il fuoco con un altro ceppo ed accese la candela mangiafumo dentro la lanterna.
"Vuoi ascoltare un po’ di musica?"
"Volentieri."
Così accese l’impiantino a 12 volt ed inserì un compact.
"E’ Glenn Gould"
Ascoltammo in silenzio tutto il disco rapiti dal fuoco e dalla musica, senza mai incrociare i nostri sguardi e quasi senza muoverci.
Finalmente mi portò a visitare il sottotetto. La stanza naturalmente aveva la stessa dimensione di quella sotto, ma lungo i due lati lunghi il tetto scendeva basso e non ci si poteva stare in piedi. Nel mezzo saliva la grande canna fumaria del focolare, costruita in pietra, capace da sola di scaldare bene tutta la soffitta. Sui due lati corti si aprivano due porticine di legno, l’una verso il soppalchetto sopra l’attrezzeria, l’altra verso il solaio sopra il bagno ed il tavolo da lavoro. Il letto era disposto ad angolo lungo la parete a monte e con la testiera addossata alla parete verso il serbatoio, sopra il bagno. Si trovava quindi sopra la cucina economica. Il materasso era appoggiato sopra una stube rivestita in ceramica bianca con due portellini forse in ghisa, uno sul fianco ed uno ai piedi del letto. La stufa, verso la testiera, si addossava alla parete del serbatoio. Attraverso due piastre di circa 20 cm. d’altezza il calore veniva trasmesso direttamente all’acqua contenuta in un piccolo comparto di circa 100 litri.
"Quando d’inverno scaldo il letto, in poco tempo scaldo anche l’acqua, così posso lavarmi con l’acqua tiepida, e contemporaneamente stempero l’aria del magazzinetto"
Nella parete opposta al letto un bel caminetto in pietra, molto profondo. Dai piedi del letto al caminetto lungo il muro un piano in legno profondo circa un metro. Un tavolone insomma, sul quale verso la parete, ordinati, trovavano posto i libri. Sopra al tavolo ancora quaderni, qualche matita. Una sanguigna, dei carboncini, una penna, dei blocchi da disegno, un lettore compact disck, una lanterna ed una piccola lampadina dell’impiantino a batterie. Un’altra lampadina sulla testiera in legno del letto. Dalla parte opposta, sulla parete corta, a nord, al posto del camino c’era la scala. Poi un rialzo in legno con due cuccette poggiate sopra. Una specie di lungo cassone con due materassini poggiati sopra come un lungo divano. Dentro al cassone areato da alcuni fori sul legno, Jaco teneva il piumino, i sacchi a pelo, le coperte, le lenzuola e qualcos’altro. Nei due soppalchetti sopra i filtri d’ingresso oltre alla legna a seccare e qualche sacco pieno di chissà cosa, c’erano anche alcuni contenitori in legno tipo bauletti con maniglie, dove riponeva attrezzature di uso non quotidiano, pezzi di ricambio, scorte di colori e materiali per la pittura. Le due stanzette prendevano luce da una porticina verso i soppalchi esterni dei due portici d’ingresso a nord e a sud. La legna così passava da fuori al soppalchetto interno, dove rimaneva a lungo a seccare e da lì direttamente nei cesti di vimini vicino ai camini. Tutta la stanza era arieggiata e illuminata da due piccolissimi abbaini simmetrici, uno a monte ed uno a valle e dalle due porticine verso i soppalchi. Il pavimento in tavolato di legno al naturale, direi non fosse levigato ma a taglio di sega, forse trattato con un po’ d’olio, come pure il manto di copertura; sopra ai grandi travoni portanti correva la seconda fitta orditura di travetti più piccoli, infine il tavolato. Il tetto era molto ripido; dal colmo scendeva giù alle due pareti in pietra fino ad una quota di circa 80 cm.. Si stava bene in piedi nella fascia centrale per una larghezza di circa due metri, anzi un po’ meno. Questo non era assolutamente un problema dato che lungo le fasce basse erano disposti i letti ed il tavolone, dove si sa, non serve stare in piedi.
"Ho preferito tenerla bassa così ho meno da scaldare; sai quando fuori fa meno venti, o anche venticinque per molti giorni, si fa fatica a scaldarsi senza far fuori tutte le scorte. Quando è molto freddo accendo la stufa sotto il letto verso le otto di sera e tengo sempre caldi i due caminetti e le due stufe. Ma così mi va via almeno un cesto al giorno. Comunque anche se di notte vado un po’ sotto zero non succede niente, per cui cerco di risparmiare la legna. Son tutte giornate di lavoro in meno!"
Ora che l’avevo vista tutta, la casa di Jaco mi piaceva ancora di più. Era veramente una gran bella casa, ben progettata, ben realizzata, ben mantenuta, magnificamente inserita nell’ambiente, di un’estrema semplicità ed intelligenza, perfettamente funzionale alle sue necessità proporzionata, perfetta.
Mi riaccompagnò giù per controllare le ultime cose e mi diede la buona notte, chè ormai s’eran fatte le dieci. M’infilai nel sacco a pelo e m’addormentai come un sasso.

Il mattino seguente Jaco mi svegliò scendendo, poco dopo le cinque. Per prima cosa accese l’impiantino ed inserì un altro disco nel lettore CD.
"E’ lo stesso concerto per piano di ieri sera, nell’esecuzione di Arturo Benedetti Michelangeli. Stai pure a letto a godertelo, io intanto preparo qualcosa."
Concentrato ed allegro, ascoltando la musica, riaccese il fuoco, riempì il bollitore, mise a scaldare il pane, scese giù a scegliere il cibo per la giornata, scomparve per un po’ in bagno e, dopo aver fatto un po’ di pulizia, si accomodò nel fratino a pulire dei fagioli, una cipolla, una carota, una patata. Seguiva la musica con leggeri movimenti del capo e delle mani ed anche con qualche impercettibile contrazione dei muscoli facciali e si vedeva bene con quale intensità. Finito il concerto, senza alzarsi dal tavolo "Sono ignorante in fatto di musica. Sto cercando di capirci qualcosa. Ascolto molte volte lo stesso pezzo eseguito da interpreti diversi; prima leggo nel mio tomo sulla musica un po’ di informazioni storiche sull’autore, poi cerco tutto quello che ho da leggere sull’opera; cerco di inquadrarla, cerco di capirne la struttura, la composizione, lo stile. A quel punto scelgo alcune interpretazioni e le ascolto, ripetutamente, tante volte, anche per mesi. Sto cercando di imparare dal manuale anche a leggere la musica. Ho un’ammirazione sconfinata per i musicisti: la musica è l’arte universale ed immortale per eccellenza. Ha qualcosa di più: dallo spartito un’opera rinasce ogni volta che viene eseguita; ed ogni volta che viene eseguita, allo spartito dell’autore va aggiunta la nuova esperienza dell’esecuzione di un grande interprete, la sua sensibilità, la sua spiritualità, il suo stile. E così quello spartito nei secoli o negli anni si arricchisce, si evolve, cresce; ed ogni grande esecuzione è in realtà un evento creativo di alta spiritualità e di grande valore, perfino di testimonianza umana ed antropologica.
I grandi direttori d’orchestra Toscanini, Furtwanger, Karajan, Muti ed i grandi interpreti, pensa ai tenori, ai soprani, pensa ai grandi solisti fino a tutti gli orchestrali, essi mettono nell’opera la loro sensibilità, la loro cultura di uomini così da risultare riconoscibili. Ogni esecuzione è un arricchimento di quel determinato spartito. In questo periodo ascolto i grandi pianisti ed alcune esecuzioni di grandi interpreti dell’opera come la Callas oppure Di Stefano, Caruso e Pavarotti. Cerco di capire, ma è difficile, soprattutto per i pianisti. In uno stesso concerto per piano ho trovato delle differenze enormi tra Gould, Arrau, Michelangeli, Rubistein e qualche giovane come Pogorelic.
Vorrei parlare con qualche musicista, perché non capisco: mi sembra che delle volte l’interpretazione sia un atto creativo e non capisco il limite, il rapporto che c’è o che dovrebbe esserci tra la partitura e l’esecuzione."
"Non posso assolutamente aiutarti in questo. Piace anche a me, e molto, ascoltare musica, ma non ne so niente. In fondo l’universalità della musica è proprio questa: si può ascoltare senza saperla leggere. Quando Fitzcarraldo discende il fiume tra gli indigeni ostili, per difendersi, fa girare nel grammofono un’opera. forse Mozart ? ed essi smettono di lanciare frecce dagli archi, restano incantati. La musica è l’arte della pace e dell’unione tra i popoli, eleva lo spirito su vette dove non esistono violenza e sopraffazione"
Raccontai a Jaco della mia passione per la Callas e di mio cognato, primo fagotto all’Operà di Lione e delle sue ance e, facendo colazione, chiacchierammo a lungo ancora di musica classica, ma anche di musica popolare e della musica contemporanea. Vedevo che Jaco non aveva fretta di uscire.
"Oggi è domenica, lavoreremo un po’ meno e faremo un bel pranzo. Poi verso le tre e mezza, tu dovrai partire, perché sta cambiando il tempo. Credo che pioverà. Ho visto che hai la mantellina, vero ?"
"Sì."
"Bene, allora non c’è da preoccuparsi."


Fuori non faceva più freddo come i giorni precedenti, la luce filtrava dal cielo annuvolato conferendo al paesaggio un aspetto più incombente e maestoso. Le montagne, scure e grigiastre, parevano ancora più grandi e più alte. Jaco liberò le bestie sul pascolo, dopo aver munto le due vacche. Raccolse qualche uovo, e liberò anche i polli giocherellando con Rube e Picchio.
I suoni dei campanacci e delle campanelle delle caprette, riempirono il silenzio dell’altipiano tra i fruscii degli alberi e i tremori dell’aria. Un’alba diversa da quella del giorno prima, ovattata in una luce soffusa grigioverde ed umida, ma altrettanto bella; mi riempì ancora di un’emozione sottile e profonda, anche se più tenue e malinconica.
"Il mio ultimo giorno sull’altipiano di Jaco" pensai "chissà quando potrò ritornare"
Quell’alba mi colse di sorpresa con un po’ di tristezza ed inquietudine. "Forse è il tempo" pensai, ben sapendo di quanto il mio umore venisse sempre alterato dalle condizioni meteorologiche, soprattutto in quel luogo dove ci si stà in mezzo alle nuvole
"Stai fermo, ho sentito qualcosa."
Jaco sottovoce mi disse di incucciarmi a terra.
"E’ un cervo. Guarda lì, è molto vicino, lì dietro quell’albero, vediamo se viene fuori." Più a sinistra, a circa duecento metri dalla stalla, un tranquillo gruppetto di cerbiatti, venne fuori dal bosco sull’erba del pascolo . C’erano anche due piccoli. Jaco teneva fermo Rube che ubbidiva. Le vacche e le capre, indifferenti continuavano a ruminare. Finalmente il cervo uscì fuori ed attraversò di taglio il pascolo, passando vicinissimo a noi col suo grande palco di corna; si unì agli altri e poi scomparvero, più giù nel bosco.
"Sono molto diffidenti ma sanno che qui possono stare tranquilli, ogni tanto vengono a trovarmi. Qualche volta stanno sul pascolo per ore, ma oggi erano un po’ nervosi. Forse hanno sentito qualcosa di insolito. Credo proprio che ti abbiano visto."
L’incontro col cervo ed il buon umore di Jaco, in un attimo si portarono via le mie malinconie e così, rinfrancato, potei godere anch’io più serenamente di quel nuovo giorno.
Telefonai a casa per salutare Camilla ed i miei piccoli e raccontai loro dei cervi, delle mucche, delle capre e dell’asino. Intanto Jaco armeggiava dentro la stalla col forcone. Alle otto e mezza, sul tavolo fuori, preparammo lo spuntino di mezza mattina a base di pane e latte. Jaco tranquillo e rilassato mi raccontò ancora qualche storia sulla gente di montagna, sui boschi e gli animali del parco, sui fiori e gli uccelli.
Passammo la mattinata su quel tavolo, fuori, sotto il portico a chiacchierare. Aveva bisogno di parlare, si capiva. Mi chiese dei miei figli e di mia moglie, dei miei amici, dei miei incontri, della gente che frequentavo. Dal suo volto traspariva spesso una specie di rassegnazione, una velata tristezza, una celata inquietudine. Ogni tanto i suoi occhi s’incantavano e la sua mente scivolava via chissà dove a cercare chissà cosa. Capivo che lo straordinario equilibrio ed il suo speciale rigore morale, all’apparenza così tanto solidi quanto luminosi, nella realtà venivano spesso scalfiti da ombre inconsolabili. Allora capivo come quella sua particolare disciplina interiore rigorosissima, fosse anche una specie di autodifesa per sopravvivere, per non perdere la cognizione di sé, per non farsi sopraffare da quel pessimismo cosmico e visionario che permeava tutti i suoi pensieri. In realtà Jaco non poteva essere felice: l’intensità con cui viveva la sua arte pittorica e la sua arte di vivere, non poteva che provocare dolore e sofferenza. E come poteva non essere così, dato che il suo esperimento di vita conteneva già di per sé alcune rinunce drammatiche e laceranti. Come quella di non firmare i suoi quadri e di non sapere dove andassero a finire, né come fossero utilizzati dal suo mercante, né come fossero visti dalla critica. Come poteva sopportare alla lunga quella scelta, e come poteva sopportare anni di completa solitudine, sia pur alleviata dalla rete informatica. La sua disciplina non aveva cedimenti apparenti, ma il suo cuore soffriva in silenzio. Avrei quasi preferito che fosse sorretto da quella fede religiosa, che diceva di avere, ma che non era sufficiente a motivare le sue scelte; oppure avrei preferito per lui che la sua mente fosse più povera e la sua vista più miope, così da alleviare nell’ignoranza il suo dolore. Il suo era un tentativo estremo; dimostrava un indomito coraggio nella sua ricerca di libertà e nella sua ricerca di valori, ma le scelte che aveva fatto erano talmente definitive ed esclusive, da metterlo fuori, da allontanarlo sistematicamente ed irreversibilmente dal mondo, dagli altri.
"Io credo che la proprietà principale dell’arte sia la sua capacità di premonizione. L’essenza dell’arte è l’anticipazione; l’espressione artistica nasce all’interno della quotidianità, della ripetitiva intimità personale, della familiarità più normale, per poi sovvertirla in una trascendente liberazione: per questo non credo che l’arte e l’architettura possano mai essere asservite a qualsiasi prassi politica o a clichè come quelli dell’arte borghese, o marxiana o liberale.
Le proprietà rivoluzionare di sovvertimento e di anticipazione dell’arte, la liberano per definizione da qualsiasi forma di collettivismo o di appartenenza politica , e per questo l’autore è sempre solo nel suo parto doloroso. Deve essere libero come un uccello nel cielo o un delfino nel mare; può confrontarsi con gli altri , può condividere pensieri e modalità, può unirsi in gruppi o cenacoli, può e deve vivere, guardare, ascoltare. Deve annusare come un cane da tartufo, interpretare, osservare, ma nel momento dell’atto creativo è solo con se stesso. Questo non è il facile luogo comune dell’elitarismo, della torre d’avorio, dello snobismo. La verità dell’arte è la sua autonomia. L’artista esprime con forme e contenuti il suo non-conformismo, il contenuto critico della quotidianità come diceva Marcuse "invoca la necessità della liberazione." L’artista non può progettare il proprio universo se non attraverso la familiarità dell’esperienza, se non attraverso l’universo esistente di parole, immagini e suoni, ma attraverso il materiale esistente e la storicità dell’arte, l’autore sovverte la realtà data con parole, immagini e suoni che non sono di questo mondo, anticipando le trasformazioni, interpretando le mutazioni e non servendosene a posteriori. La solitudine dell’artista è totale anche quando lavora per un committente, pubblico o privato che sia, ammenochè la sua arte non sia strumento propagandistico o di comunicazione di un’idea precostituita, o di un ordine sociale, o di un dominio culturale e politico. Qui torniamo al rapporto tra artefice e committente, alla Firenze Medicea, a Carlo V a Tiziano. Carlo V diceva di non aver ambizioni di dominio ma un’idea dinastica di un impero universale cristiano basato sull’unità della fede. Riuscì a creare così un impero transoceanico su cui non tramontava mai il sole, ben al di là dei confini della cultura tutta italiana rinascimentale; eppure il ritratto equestre di Tiziano con l’elmo piumato lo ritrae come un uomo maestoso del rinascimento italiano come se a Tiziano non interessasse più di tanto il potere terreno dell’imperatore quanto il suo spirito rinascimentale. E così lo scambio tra artefice e committente si autorigenera esprimendo visioni diverse della realtà, modificandone la percezione, condizionandosi reciprocamente. Oggi invece, nella società neocapitalistica avanzata, l’arte ha sempre più abbandonato la sua essenza, per divenire un confuso prodotto di consumo tra i tanti che riempiono questo mondo sbagliato. Ha perduto il suo predominio, si è lasciata sopraffare dall’economia. L’arte ha perduto la sua parentela con l’infrastruttura sociale e politica e dei modi di produzione. Se nel Rinascimento era la madre, poi la sorella, infine durante la rivoluzione industriale una lontana cugina, oggi cos’è se non il ricordo di un’avventuretta con una prostituta di passaggio oppure con una straniera che parla una lingua incomprensibile?"
"Sei troppo pessimista, tu esageri. Sì è vero che l’economia e l’incombenza della produzione di miriadi di oggetti di consumo, hanno preso il sopravvento sull’arte, sull’architettura, sulla letteratura. Ma non credo proprio, almeno spero, che sia un processo irreversibile. C’è ancora tempo per rifarsi, per fare, per ripensare il proprio ruolo."
Jaco insisteva drammaticamente usando citazioni a sostegno dei suoi convincimenti, come quella suggestiva di Thomas Eliot che nel poema la Terra desolata descriveva la citè infernale, come già avevano fatto William Blake e lo stesso Baudelaire ; come se le forze vitali della civiltà si fossero esaurite nello sfacelo e nel caos, tra rovine e frammenti in una disperazione metafisica. Ma anch’io mi permettevo d’insistere, anche se affettuosamente e con molta comprensione. Ormai mi ero convinto che il suo fascinoso esperimento di vita, pur aiutandolo per molti aspetti, fosse troppo definitivo, troppo estremo e quindi anche pericoloso per la sua apparente integrità psichica e morale. Anche se ammiravo la sua forza di volontà, la sua dedizione, la sua cultura; anche se la sua scelta radicale mi affascinava a tal punto da desiderare perfino d’imitarla in qualche modo, eppure sapevo bene quanto essa potesse in realtà rigenerare il suo dolore. Così non accettavo passivamente il suo tragico malessere interiore che traspariva dai suoi discorsi e si manifestava, credo, in quei momenti di assenza e di estraneazione, e, forse un po’ per affinità, capivo bene di quale dolore si trattasse.
"come farà a passare tutto l’inverno qui da solo?", pensavo, ben sapendo che di lì a poco, sarei partito e di non aver più tempo per stargli vicino. Mi assalivano dei dubbi: "Ma perché sarà scappato così?", pensavo, "in fondo avrebbe potuto tagliare i ponti in mille modi diversi, senza doversi rifugiare in alta montagna, senza tutte quelle rinunce"
In fondo avrebbe potuto rinunciare all’architettura per fare il pittore, magari anche allontanandosi dalle compromissioni mercantili, senza per questo dover necessariamente rinunciare a tutto e a tutti. Pensavo al mio zio pittore, Angelo, ed alla generazione di mezzo dei pittori astrattisti veneziani ed alla loro battaglia contro la mercificazione dell’arte negli anni 50-60; pensavo al famoso falò di Campo S. Giacomo, durante il quale si ritrovarono in tanti a bruciare i loro quadri, i disegni, i manoscritti; pensavo a quel drammatico gesto simbolico In fondo però quegli artisti col falò bruciarono anche una parte di se stessi e così molti di loro finirono male tra manicomi, suicidi, alcolismo. In fondo cosa resta oggi del loro travaglio? A parte Tancredi, pure suicidatosi, degli altri resta poco o niente, e quello che c’è è finito troppo presto nel dimenticatoio, negli scantinati umidi e nei corridoi bui dove finisce sempre chi rifiuta d’esser parte vitale dell’economia dominante e che si mette ai margini di una feroce civiltà basata essenzialmente sul profitto. Cercai di parlarne con Jaco.
Rientrammo in casa per preparare il pranzo, una minestra di fagioli sulla teglia di terracotta, parlando ancora di pittura e di incomprensione. Così dalla generazione di mezzo Veneziana Tancredi, Bepi Longo, Boldrin, mio zio e gli altri fino a Modì, Egon Shiele e Van Gogh ci dilungammo a cercar di capire tanto dolore e tanta incomprensione. Jaco dimostrava ancora una volta di conoscere molto bene ciò di cui parlava: "Quando Modigliani, da una vita borghese sia pur decaduta, da una Livorno familiare e protettiva, decide di lasciare tutto e di trasferirsi a Parigi, nel 1906, era poco più che un giovinetto di bell’aspetto, appena ventenne. Povero Amedeo, è così struggente la sua ricerca, così coraggiosa e indomita, così tragica e assoluta, che a ripensarci mi commuovo sempre, fin nel più profondo del mio cuore. Tu parli delle mie rinunce, non che io voglia assolutamente paragonarmi a Modigliani, ma io ho da mangiare, mi scaldo, vivo in un bel posto; lui invece non aveva nulla se non la sua fede incrollabile nella sua ricerca creativa, nella maturazione della sua arte. Sai quanto presto avrebbe fatto a realizzare qualche collage cubista, con il talento che si ritrovava, per ricavarne qualche soldo e per migliorare la sua condizione economica e magari per comprare i colori e le tele? E invece dipingeva ritratti, che non interessavano a nessuno, che nessuno voleva, e che molti benpensanti consideravano persino scandalosi. I suoi dessins a boire, eseguiti in pochi secondi, quasi senza mai staccare la matita dalla carta, qualche volta gli valevano un bicchiere di vino, ma il più delle volte venivano rifiutati. Modì non ha esitato a vivere in fondo da mendicante, nella condizione più umiliante per un uomo della sua statura, pur di proseguire nel suo tortuoso cammino e di perseguire il suo disegno. Frequentava gente come Brancusi, Zadkine, Foujita, Jacob, la Mastings, Utrillo, Maurice Vlaminck, Andrè Derain, Severini, Jacob Epstein, Apollinaire, Ortiz de Zarata, Lipchitz, Cardoso, Stravinskij, Juan Gris, Picasso e Braque coi quali però non ci fu mai un buon rapporto Picabia e tutti gli altri, oltre naturalmente ai suoi mercanti Paul Alexandre e Leopold Zborowski. Eppure Modì restò sempre solo a cercare il suo linguaggio così tangenziale all’aria parigina di quegli anni. Tante donne, tante esagerate nottate tra i fumi dell’alcool e della droga, tante discussioni non facevano che peggiorare la sua condizione psichica, la sua solitudine e la sua debole salute. La tubercolosi intanto se lo mangiava dentro. Eppure, affamato, infreddolito, malato, proseguì coraggiosamente, fino all’ultimo, senza che nulla potesse distoglierlo, con una fede incrollabile, a dipingere i suoi ritratti introspettivi e sensuali, a dipingere l’anima di figure umane. Già durante il percorso del funerale, durante il cammino del feretro, una galleria esponeva le sue opere. La sua amata Jeanne, con suo figlio in pancia ormai nascituro, se n’era andata con lui; il giorno dopo la morte di Amedeo, si buttò dalla finestra. In pochi giorni Modì entrò nella leggenda ed i suoi quadri centuplicarono il loro valore. Gli ignavi restano affascinati dalla vita bohemienne di questi che chiamano gli artisti maledetti, ma è perché non capiscono e spesso è una speculazione dei critici. Modì era sorretto da un coraggio ed una rigidissima onestà morale ed intellettuale, nel perseguire la sua visione della bellezza e dell’arte a scapito della vita stessa e della sua salute fisica e psichica; una totale fedeltà al suo ideale di bellezza, nella più completa incomprensione, nella solitudine più assoluta e lacerante. Oggi la gente guarda un quadro di Modigliani e pensa "Che bello!". Il suo ideale di bellezza è universalmente riconosciuto tanto che i suoi quadri valgono miliardi ed i musei di tutto il mondo se li contendono da almeno cinquant’anni. Vedi: la premonizione, la vocazione all’anticipazione? Vedi quello che ti dicevo prima sulla produzione di forme che non sono di questo mondo, attraverso le forme di questo mondo. Vedi la solitudine dell’artista ? Vedi il dolore?"
"Anch’io amo Modigliani, però guarda che ci sono stati tanti sommi artisti che hanno vissuto con gioia il loro atto creativo e la loro stessa vita. Raffaello ad esempio, l’armonia della sua arte è del tutto priva di tensioni drammatiche. Ma anche Bernini. Non credo sia sempre valida l’equazione creazione uguale sofferenza, almeno storicamente nei secoli passati."
"E Leopardi allora, e Foscolo? E i tormenti del Tintoretto? E Borromini? E la tensione morale incompresa del Caravaggio? E Michelangelo? E l’incomprensione con cui ha sempre convissuto Leonardo? Non è che sempre sia valida l’equazione creazione uguale dolore ma di sicuro è sempre presente nell’atto creativo un qualcosa di incomprensibile, una specie di sintesi premonitoria, di spoliazione dal senso comune, di isolamento volontario nella ricerca del sublime, di un linguaggio proprio, di una visione personale ed al contempo universale così da risultare necessariamente straziante nella sua vocazione anticipatoria."
Intanto la minestra sobolliva lentamente, riempendo la stanza di un familiare profumo di casa; fuori già le prime gocce di pioggia scendevano da un cielo plumbeo e preoccupante. Cominciavo a pensare al mio ritorno con un po’ d’apprensione, ma volevo godere con tutte le mie forze di quelle ultime ore con Jaco. Così, facendo finta di niente, proseguii nel discorso.
"Ma allora Jaco, cosa dovrebbero provare gli scienziati, gli avvocati, i magistrati, i medici che soffrono del quotidiano vilipendio del loro mestiere"
M’interruppe subito e molto seriamente "gli scienziati oltre alla lampadina, la radio, la televisione, il computer, hanno anche inventato la bomba atomica ed attraverso le bioscienze perfino le armi etniche. Sai cosa sono? Te lo spiego io: sono armi batteriologiche in grado di colpire un gruppo di persone, di selezionare le vittime, ad esempio particolari etnie, oppure quelli con la pelle nera o gialla. Ci pensi, capisci a quale livello è arrivato l’uomo e gli scienziati prestano i loro servigi per denaro ad aberrazioni del genere. Oppure quei medici che hanno fatto nascere decine di cloni del figlio di un principe arabo del petrolio, per poterne ricavare pezzi di ricambio organi da trapiantare in caso di malattia dell’erede; o quelli che trapiantano organi ai ricchi tolti ai bambini disperati per quattro soldi; occhi, reni ma anche organi vitali da bimbi svenduti nel mercato dagli stessi genitori. E quegli avvocati civilisti che accettano, in cambio di parcelle stratosferiche, di far cause strumentali ai subfornitori per rimandare i pagamenti inventando contestazioni inesistenti; e quei magistrati che abusano del loro potere interpretando al limite della legalità leggi farraginose. Non mi parlare di queste cose perché potremmo star qui ad elencare per ore le aberrazioni e le distorsioni di un sistema che ormai possiamo decretare come deceduto, finito. Bisogna capire cosa c’è dopo, è questo che bisogna fare, e non perché siamo alla fine del secolo o all’inizio del nuovo millennio. E’ una domanda che ci dobbiamo porre ogni mattina, ad ogni ora del giorno di ogni anno. Ormai è finita; questa civiltà va rigenerata."
Non tentai nemmeno di ribattere. Ci chiudemmo entrambi in un breve silenzio. Jaco come niente fosse si alzò a rigirare la minestra, ed io, superato l’attimo d’imbarazzo provai a riassumere le idee:
"Io cercherò di andare avanti per la mia strada. Vorrei lavorare bene, correttamente ed onestamente, pacificamente. Vorrei eliminare sempre più dal mio piccolo universo la sopraffazione, la violenza e l’intolleranza. Vorrei ricercare con rigore un’etica professionale ed una normale qualità del mio lavoro. Vorrei essere capace di rinunciare il più possibile. Vorrei rendermi partecipe di un processo di rifondazione della normalità e della semplicità, vorrei costruire qualche buon edificio, magari anche pubblico dando così il mio piccolo contributo ad un processo di rigenerazione delle periferie sconfinate. Vorrei anche progettare qualche buon oggetto di design magari per semplificare un gesto o in risposta ad un nuovo bisogno. Mi piacerebbe molto poter dare un contributo alla diffusione delle idee per gli uomini e per la qualità della loro vita. Mi piacerebbe anche insegnare ai più giovani quel po’ che ho imparato nella vita. Mi piacerebbe tanto combattere la degradazione ed il declino, l’illegalità diffusa, la cultura dell’appropriazione e della sopraffazione lasciando col mio lavoro qualche piccolo esempio. Capisco di volere tanto ed anche capisco che per ottenere tutto ciò bisogna mettere il paraocchi ed isolarsi in una specie di assenza o marginalismo dai meccanismi comuni, ma io credo che il tempo sarà un buon arbitro e spero ancora in un miglioramento, soprattutto per i miei figli."
"Mi sembra bella questa idea di rifondare un concetto di normalità, ed anche, forse, in parte realizzabile. Ma ho paura che la tua benevola utopia di rigenerare le periferie sconfinate e la tua ricerca di una normale qualità s’infrangeranno purtroppo contro i muri ed i bastioni dell’ignoranza dilagante, della irreversibile dissoluzione della città in un cyberspazio dove il tempo mondiale dell’immediatezza mediatica la farà da padrone alterando l’essenza stessa dell’architettura e cioè la sua dimensione spaziale."
"Ma io credo che ci sia ancora tempo perché la grande rivoluzione telematica dematerializzi il mondo, forse cinquanta o meglio cento anni, e in questo periodo interstiziale tra una vecchia forma sbagliata di civiltà in declino, ed una futura civiltà dai contorni indecifrabili, in questo tempo del passaggio molto si potrà fare per capire e condizionare positivamente l’epoca futura."
Jaco, non senza ironia, tra il serio e il divertito partì per la tangente:
"In un futuro più o meno prossimo le città e i vecchi suburbi, già oggi in declino strutturale, frammentate come sono dalla separazione monoculturale delle funzioni turistiche, commerciali, del terziario, di salotto buono, del divertimento; distrutte dalla miopia di pianificatori politicizzati e idealisti, volgarizzate da una specie di omologante prefabbricazione culturale; le vecchie città transmuteranno in macrozone digitalizzate dove la gente, ormai dotata di microchip sottopelle, rintanata in microappartamenti ipertecnologici, dall’home theatre, espleterà le sue funzioni vitali; per poi riversarsi per gruppi o per bande nelle strade e nei sordidi ritrovi del divertimento di massa. Territorio non ce n’è più, allora le bande eleggeranno come luoghi e sedi organizzative le rovine divenute inutili di antiquate produzioni industriali o dei mega centri commerciali. I ricchi si arroccheranno come in un nuovo medioevo nei bei centri storici che verranno fortificati a difesa della proprietà e dei beni accumulati. I grattacieli delle aree direzionali, ambìti dalla classe media, verranno sordidamente trasformati in multicondomini di miniappartamenti cablati entro cui vivere e lavorare. Le periferie si svuoteranno di quelle residue commistioni di funzioni diverse per divenire agghiaccianti dormitori o territori di conquista per bande multietniche di affamati. Le classi sociali, borghesia e proletariato, scompariranno. Pochissimi potenti governeranno i fili della macroeconomia mondiale dai loro feudi inavvicinabili sparsi qua e là nel mondo e a tutti gli altri non resterà altro che sopravvivere alimentandosi di cibi transgenici coltivati in serre elettrocomandate, ricavate nei tetti, nelle vecchie fabbriche, ai bordi delle strade. Da enormi magazzini robotizzati si distribuiranno i beni di consumo acquistati dal computer. Alcune microaree naturali diventeranno dei musei e per vedere un larice si pagherà il biglietto, come succede oggi con lo zoo.
L’acqua diventerà preziosa come oggi lo è il petrolio. Sopra le discariche dei rifiuti urbani si costruiranno i parchi gioco dei bambini e le aree a prato sintetico. L’aria sarà irrespirabile ed il sole pericoloso. Scompariranno il legno e la carta, così come quasi tutti i materiali naturali. L’energia necessaria per mantenere sempre in funzione la grande rete digitale ogni tanto andrà in black out, e così tutto si bloccherà ed il panico prenderà il sopravvento. Intanto nei salotti dei feudi tutto funzionerà alla perfezione, la medicina sarà in grado di rigenerare le cellule, di curare il cancro, di sostituire parti del corpo, mentre fuori nella giungla suburbana infinite e sconosciute nuove malattie e nuove pestilenze decimeranno la popolazione"
"Fan culo! Jaco!" pensai, ma volevo chiudere il ragionamento.
"Non credo sia prudente accordare eccessivo credito a previsioni futurologiche fantascientifiche, né all’idea che la città non ci sarà più, solo perché c’è la nuova tecnologia. Il tempo è ancora lungo e l’uomo ha bisogno di relazioni sociali e fisiche, di interrelazioni economiche e produttive. Io ho ancora fiducia, la città resiste e non esploderà più, ho fiducia che la politica faccia in tempo a mettere in moto strumenti per abbattere e ricostruire meglio, per rigenerare il suburbio ma anche i centri storici museificati e turisticizzati. Bisogna inventare la città nelle desertiche periferie e smetterla di delocalizzare, smetterla di pianificare tutto. Io ho ancora fiducia, so che ce la faremo, questo processo di distruzione è destinato a finire presto e le nuove tecnologie devono esser viste come uno strumento per migliorare la vita di tutti."
Jaco sorridente ed un po’ ironico propose un brindisi "Bevo al mio nuovo amico Claudio, patetico ma irriverente strenuo difensore dei più deboli, don chisciotte della nuova architettura, protettore della città. Bevo al mio nuovo amico Claudio ed al nostro incontro !"
"Cin, Cin."
"Mangiamo dai, che è pronta la minestra."
"Che ore sono ?"
"Uhm, è l’una."
"Ci scriveremo quest’inverno?"
"Certo, ma ho pensato che ti manderò anche qualche messaggio sul sito internet. Ci stai?"
"Ci stò."
"E quando tornerai?"
"Quando potrò tornare?"
"Mi piacerebbe molto se tu tornassi qui, a vedere l’inverno. Ti farebbe bene!"
"E come?"
"Se non sai fare sci alpinismo, e se hai voglia di spendere un po’ di soldi posso farti venire con l’elicottero."
"Quanto costa?"
"Circa un milione."
"E quanto potrei fermarmi?"
"Quanto vuoi, perché poi si scende con le racchette e gli sci."
"Vedrò di riuscirci."
"Bene , ne sarei felice."
Jaco mi offrì una ciotolina di minestra di fagioli, ben riuscita e buonissima, accompagnata da un crostino di pane precedentemente abbrustolito sul fuoco, e da un bicchiere di vino. Completammo il pranzo con un pezzettino di formaggio invecchiato di malga e una pera. Mi ragguagliò dettagliatamente su tutte le modalità per i nostri futuri contatti e mi raccontò, dedicando attenzione a molte sfumature apparentemente insignificanti, il suo modo di gestire il sito internet.
"Cosa farai nei prossimi giorni?"
"Domani mattina laverò la stalla, poi per qualche giorno completerò la legnaia e le scorte per gli animali, preparerò l’orto per l’inverno e poi ancora, quando verranno i malgari, farò quei lavori che ti ho già detto. Vorrei finire il quadro entro domenica prossima. Risponderò anche agli e-mail ed inserirò qualche cosa di nuovo nella mia casa virtuale. La settimana prossima, se arriverà, monterò la stazioncina meteorologica, e manderò giù al farmacista un po’ di piante medicinali perché sono quasi pronte. Passerò il cavo d’acciaio che mi hai portato su un tirante della capriata della stalla perché ho notato un piccolo cedimento. Evidentemente era ancora troppo fresco. Dovrò riempire il serbatoio dell’acqua e tagliare qualche tavola con la sega circolare per proteggere la legnaia sul portico a nord: l’anno scorso durante una tempesta è venuta giù un bel po’ di legna. Voglio fare anche un’escursione nelle pale, prima della grande neve, così andrò a trovare un mio amico al rifugio. A novembre accompagnerò due ricercatori fino al Mulaz; si fermeranno qui a casa un paio di giorni, poi con tutta probabilità non vedrò più nessuno fino a febbraio o marzo. Rube dormirà in attrezzeria. Tutti i giorni andrò dalle bestie, per la stufa e per far loro sentire che ci sono; qualche volta mi porto il blocco degli schizzi e sto lì a disegnare vicino alla stufa e parlo un po’, se nò mi si rattrappiscono le corde vocali. Vorrei lavorare molto quest’inverno. Ho delle nuove idee. Mi sto anche esercitando un po’ nel figurativo. Vorrei fare qualche natura morta e qualche volto. Devo finire di studiare "Così fan tutte" di Mozart, ormai è quasi un anno che l’ascolto. Sto anche provando a scrivere un racconto lungo sulla storia di un ragazzotto qui del posto ambientato nel 1919, che rimane in paese per due anni, lui unico maschio con una quarantina di donne e qualche animale. E’ una storia vera, che ho sentito raccontare più volte dai vecchi e che ormai è diventata proverbiale per la gente di qui: lui dopo la guerra s’è sposato e ha messo al mondo sette figlie femmine di cui solo due trovarono marito. Ci stò provando ma è faticoso, non riesco a delineare i tratti delle figlie ed a descrivere bene le differenze di carattere delle cinque figlie rimaste in casa. Boh. Non so. Se vuoi un giorno proveremo a leggerlo insieme."


Andando via sotto la pioggia, mi fermai tre volte sul pascolo a salutare Jaco che mi guardava camminare. La mantellina da alpinista mi proteggeva bene dalla pioggia battente; lo zaino, in fondo, non pesava molto anche se Jaco aveva insistito affinchè portassi a casa un salame, una pancetta, qualche uovo appena fatto per i bimbi ed una borraccia di latte appena munto. Mi chiese di consegnare all’ufficio della forestale un paio di lettere, oppure di lasciarle all’albergo, nel caso fosse chiuso. Si raccomandò più volte di scendere lentamente e di non distrarmi mai sul sentiero ripido per non rischiare di scivolare. Jaco per sicurezza, ma credo non ce ne fosse bisogno, mi tranquillizzò affettuosamente, avvertendo qualcuno via radio della mia discesa.
In realtà seguii il sentiero con prudenza, senza particolari apprensioni e, pur bagnato, mi sentivo bene in forze. In un paio d’ore raggiunsi la macchina; andai ad avvertire del mio arrivo una guardia forestale che stazionava nella casupola d’ingresso al parco e, con un po’ di rimpianto, cominciai a guidare sulla strada del ritorno verso casa. Dopo la sosta a S. Martino per la consegna delle lettere e dopo aver portato i saluti di Jaco al parroco che raccolse con gioia sue notizie, mi avviai definitivamente verso casa, consapevole di aver vissuto un’esperienza straordinaria.